martedì 22 luglio 2014

Perché scrivo della Montagna

Perché...
Già, perché?
Allora... uhm... la storia è un po' lunghetta. E arzigogolata.
Comunque, fatto sta che io non è che sia appassionato di montagna da qualche anno o da un decennio. Io sono appassionato di montagna da sempre. Da quando ho memoria del mondo.
Sono nato in città, come quasi tutti. In una città di mare, per giunta. Vabbé, mare o come lo vogliamo chiamare.
Ma io e il mare non è che siamo mai stati molto amici. Da piccolo ci andavo, trascinato dai genitori. E tutto sommato mi ci sono anche divertito ogni tanto. Come ci si diverte ogni tanto anche quando si esce al Sabato sera con qualcuno che non significa granché per te, ma che tutto sommato per quella volta può pure andare bene, tanto per non stare in casa.
Ma, appunto, come succede con una persona che non ha un gran significato nella tua vita, se per un po' ti perdi di vista non è che ti senti il cuore straziato e lacerato.
No, se per un po' perdi di vista quel qualcuno, potrà venirti in mente ogni tanto onde chiederti: "Boh, chissà se quello/a là è ancora vivo? Bah, forse si, sennò mi avrebbero informato del funerale. Meglio, un'occasione in meno per essere costretto a mettermi giacca e cravatta. Con sto caldo poi... La gente che crepa a Luglio non ha proprio creanza. Comunque, sempre meglio di chi a Luglio si sposa. Perché almeno dopo il funerale mica c'è il pranzo lunghissimo e spossante, e puoi tornare subito a casa, cambiarti e magari riesci anche a vedere l'arrivo della tappa del Tour. Oh, grande Nibali quest'anno, eh!.... Ma a cos'è che stavo pensando all'inizio?...".
Funziona così, no? Con le persone poco importanti, dico.
E per me lo stesso è con il mare. Si, per carità, anche lui ha diritto di esistere. Però non è che ci si debba incontrare tutte le volte. Ognun per sé. Se poi casualmente ci si becca in giro, allora può pure andar bene. Ma mica che diventi una roba d'impegno.
Così, quando finalmente diventai grandicello e mi allontanai dalle compagnie filomarittime, potei finalmente dedicarmi segretamente a lei: la Montagna! Si, segretamente. Perché quando hai 17 anni e tutti i tuoi amici d'estate vogliono andare in spiaggia per sfoggiare i loro brufoli davanti a coetanee in bikini che a forza di voltarsi dall'altra parte per ignorarli a 20 anni si ritrovano tutte con una distorsione cronica del rachide cervicale e tu invece ti lasci scappare che preferiresti andare in montagna a passeggiare nei boschi e scoprire se sono nati i primi funghi dopo qualche giorno di pioggia... cioé, socialmente sei morto. Morto!
Non so se mi spiego. A 17 anni devi stare più attento a quello che dici di Papa Ratzinger quando parla dell'Islam all'Università di Ratisbona. Papa Ratzinger ha le Guardie del Corpo. Svizzere e vestite come nemmeno un daltonico, ma sempre Guardie sono. Tu no. Tu se ti fai scappare una parola sbagliata, un concetto contro corrente, una citazione colta, sei socialmente morto. MORTO!
E infatti ci fu un periodo abbastanza lungo in cui in montagna non andai quasi per nulla. Diciamo tra i 14 e i 20 anni, si. Appunto per le succitate compagnie e per l'età complicata in cui fare coming out.
Tuttavia, il pensiero non ne era completamente distolto. Il bosco, la natura, i ruscelli... trovai un palliativo. Un sostituto. La pesca sportiva. Fino ai 22 circa anni io sono stato un malato di pesca. Ci ho speso tutti soldi che ricevevo dai regali e le paghe dei lavoretti estivi (che poi lavoretti... lavoretti un cazzo: quando facevo il cameriere in albergo lavoravo 7 giorni su 7 per 10 ore al giorno di media senza nessun giorno di ferie o malattia... altro che lavoretti!).
Collezionai annate intere della gloriosa Pesca In, la rivista più importante del settore di quegli anni. Divoravo gli articoli di Fausto Buccella, Mario Molinari, Milo Colombo, Michele Marziani... ma soprattutto Elvio Scarrone. Gli altri scrivevano articoli, recensioni, commenti tecnici. Elvio Scarrone scriveva, scriveva nel vero senso della parola. Raccontava, ti trascinava dentro e ti portava sui suoi ruscelli, indietro negli anni a volte, nei giorni freddi delle aperture dell'ultima domenica di Febbraio, quando si dirigeva nel "suo posto" al torrente, studiato puntigliosamente nei mesi precendenti, facendosi largo nella neve con le energie residue dalla notte insonne e nascondendo la barba nera sotto il colletto del maglione. Aveva un modo di scrivere sensazionale!
Oltretutto le sue narrazioni si svolgevano proprio in montagna, su torrenti piccoli, spesso raggiungibili solo dopo un bel tragitto in macchina e una bella faticata a piedi.
Dentro al bosco, silenzioso, solitario, spesso freddo e apparentemente addormentato.
Benché io a quell'epoca praticassi una pesca assai diversa dalla sua, essendo per conformazione territoriale la mia casa molto più vicina a laghi e stagni, piuttosto che a fiumi e torrenti, i suoi articoli li attendevo con ansia e li leggevo e li rileggevo di continuo. Come se a forza di leggere potessi finalmente essere assorbito dalle pagine della rivista e poter trovarmi all'interno delle storie raccontate. Poter vivere quegli ambienti, quelle atmosfere, quegli stati d'animo di fatica e conquista.
Infatti pian piano mutai le mie abitudini di pescatore e passai da una pesca statica e d'attesa, ad una di movimento più attiva, cambiando tipologia di prede e accontentandomi anche di una sola cattura a costo di tanta fatica in grado però di portarmi una soddisfazione maggiore. Tengo a precisare, per i benpensanti, che praticavo (come la maggior parte dei pescatori facevano e fanno) il catch and release, ovvero, una volta catturato, il pesce veniva slamato con accortezza e poi rilasciato.
Negli ultimi anni della mia attività di pescatore sportivo, migrai sullo spinning. Ovvero la pesca con le esche artificiali (cucchiani, minnows e tutta quella serie di robette di plastica che costano un occhio e che rischi di perdere ad ogni lancio). Iniziai a frequentare il fiume della mia città. Fiume o come lo vogliamo chiamare. Sognando fario autoctone ed esultando per un cavedano plebeo.
Ma come nacqui pescatore? Riassumendo un breve excursus, il mio battesimo come pescatore lo ebbi a 6 anni partecipando ad una gara di pesca alla trota in laghetto organizzata dal CRAL dell'azienda in cui lavorava mio padre. Fu un segno del destino, si potrebbe dire, perché il culo dei principianti (e la pochezza anche degli avversari) mi permisero di vincere sia il primo premio nella graduatoria dei piccoli che quello in quella degli adulti, superando e non di poco il peso in catture del secondo classificato. Mi aggiudicai una coppa e una canna con mulinello (niente di ché, ma già  molto meglio dell'attrezzatura che possedeva ognuno che quel giorno aveva partecipato alla gara).
Dissero che in realtà era stato mio padre a catturare le trote e che poi le avesse date a me per farmi vincere, ma così non era e i pescatori che in postazione erano vicini a noi durante la gara testimoniarono l'accaduto. I premi mi vennero aggiudicati, nonostante diverse proteste. Incredibile comunque come anche in una gara domenicale del CRAL vi sia gente pronta a far polemica per un coppa con un bambino.
Negli anni seguenti partecipammo altre due volte a gare organizzate dal CRAL, arrivando io secondo e mio padre terzo e viceversa. Entrambe le volte capitò a noi quello che era capitato quella volta agli altri, un principiante ci aveva superato per una botta di fortuna e si era aggiudicato il primo premio. Ma così va la pesca e infatti noi non protestammo mai. Ma a parte queste due occasioni decidemmo di non prendere più parte a queste iniziative, perché ogni volta che ci presentavamo al campo di gara c'era sempre qualcuno che iniziava a bestemmiare. Non è che fossimo dei campioni, ma noi a differenza di quasi tutti gli altri sapevamo pescare, perché in quegli anni ci andavamo spesso e sapevamo affrontare ambienti e situazioni diverse, e finiva sempre che bene o male uno o due premi grossi li portavamo via. Questo ovviamente non piaceva né agli altri partecipanti né al CRAL che organizzava, perché poi si beccava le polemiche. Per noi invece pescare voleva dire divertirsi, di rotture di balle non ne avevamo pezza e decidemmo di lasciarle agli altri.
Qualche anno dopo passai alla pesca alla carpa, sempre in lago e al catch and release. Era la moda del momento, mentre fino a pochi anni prima lo era stata la trota che una volta pescata si portava a casa e si stipava in congelatore (oddio, noi la mangiavamo anche). Comprai con le mance del lavoro estivo una canna inglese per la pesca medio-pesante a fasce di carbonio intrecciate e iniziai a frequentare le cave e i laghetti "selvatici". Imparai la tattica, oltre che la tecnica, capendo quale fosse il luogo migliore in un ambiente acquatico in cui concentrare gli sforzi. Imparai a seconda delle stagioni quali esche si rivelavano più appetibili e come preparare già da una settimana prima il "campo di battaglia". Insieme ad un amico ci focalizzammo sulle nuove tecniche e i materiali che venivano dall'Inghilterra, ricavandone un compromesso accettabile con quel che finanziariamente potevamo comprarci e quello che non arrivandoci coi soldi ci fabbricavamo in casa. Ma questa fase durò relativamente poco. Mi tolsi anche delle belle soddisfazioni: le grosse carpe nate e cresciute in cava sono dei treni a vapore e quando le agganci inizia una lotta che può durare parecchio, specialmente se l'ambiente è ricco d'ostacoli sia visibili che sommersi. Ma, come dire... non era la mia pesca. Si, il combattimento con una carpa da 8-10Kg. contrastata con una canna inglese, seppure rinforzata, non è certo cosa noiosa, ma stare seduto ad attendere, seppur nemmeno questo mi annoiasse, non era comunque ciò che sentivo completamente appagante.
Riniziai con la trota in laghetto, perché più dinamica e attiva. Nel frattempo anche questo genere di pesca era cambiato radicalmente, i galleggianti erano pressoché spariti dalla circolazione e chi si ostinava ad adoperarli era considerato nel migliore dei casi un antiquato, nel peggiore uno sfigato/incapace.
Erano nate nuovi tipi di canne da pesca insieme ad una nuova tecnica: la "tremarella". D'altronde è pur vero che la trota è un predatore e la vecchia pesca statica con il galleggiante e il verme ciondolante a mezz'acqua non era in effetti particolarmente indicata. Al posto dei vecchi galleggianti, il mercato fu invaso da piombini allungati che andavano dai 3 ai 7 cm e che avevano la stessa misura di peso in grammi (3-7gr.) e da aggeggi ancor più strani che servivano per pescare le trote al largo nelle grandi cave: le bombarde. L'obiettivo sia dei piombini che delle bombarde era quello di avere una zavorra idrodinamica in grado di permettere di lanciare in distanza ma di non fare affondare la lenza quando veniva recuperata dal pescatore. In questo modo una volta effettuato il lancio e aver fatto affondare la lenza alla profondità desiderata, si iniziava l'azione di recupero, che era poi quella di pesca vera e propria, essendo abbastanza sicuri che la lenza avrebbe viaggiato sempre alla stessa profondità.
E qui subentrava l'abilità del pescatore. Bisognava non solo recuperare con il mulinello infatti, ma accompagnare l'avvolgimento del filo con una serie continua di colpetti, strappetti, movimenti del cimino che davano all'esca un andamento "tremarellante" oltre che rotante. Se si era bravi a metterlo in pratica, il sistema funzionava alla grande con le tonte trotelle d'allevamento immesse nei laghetti a pagamento.
All'inizio la taglia medie delle trote era intorno ai 3-500gr. con una media di 6-8 catture al giorno. Ma ben presto i pescatori divennero competitori, dimenticando il gusto della cattura sudata e ricercata, e volendo invece solo fare mattanza. Ogni Domenica si facevano gare e per accontentare questa fame di catture dei pescatori, i gestori diminuirono sensibilmente la taglia dei pesci per poterne immettere un quantitativo maggiore.
L'ultima volta che andai a pescare le trote in laghetto, ne catturai in tre ore una quindicina di cui la più grossa sfiorava il ragguardavole perso di 150gr. Inoltre senza doverci mettere nessun impegno o dovermi inventare alcunché.
Che cazzo di senso aveva? La pesca è una sfida. Devi imparare a leggere le condizioni e capire dove stazionato i banchi di pesci a seconda della temperatura, del vento, della presenza del sole o meno. Se io immetto una tale quantità di trote da farle stare quasi strette nel poco spazio a disposizione, ovvio che basta gettare l'amo in un punto qualsiasi del lago, a qualsiasi profondità, per stare sicuro di far cadere l'esca a tiro di qualche ingenuo avvannotto appena svezzato.
Oltretutto chi partecipava ogni settimana alla gara prevista (e vi assicuro che ce n'era di gente, al tempo) che ne faceva di tutte quelle trote? Le buttava, ecco che ne faceva. Dopo la pesa e l'assegnazione dei premi, la maggior parte delle catture veniva gettata nel cassonetto poco fuori dai cancelli del laghetto o in quello vicino a casa dopo aver mostrato le prede alla famiglia. Perché le carpe di possono rilasciare e sopravvivono, ma la trote sfortunatamente no. Sono più delicate e comunque d'estate nei poco profondi laghetti artificiali morirebbero tutte comunque. Così, una cosa e pescare e portare a casa 5-6 pesci. Un po' li mangi la sera un po' li congeli o li regali, e vabbé amen. Una cosa e pescare 30-40 trote da un etto tutte le settimane. Ovvio che non riuscirai mai a mangiarle tutte. Quindi finiscono nel cassonetto.
Non sono un animalista, non di quelli integralisti che si leggono anche in rete, ma una roba così è un insulto alla vita. E infatti anche questa pesca l'abbandonai.
Mi spostai di nuovo verso le cave selvatiche e i fiumi, e come dicevo sopra approdai allo spinning che fu veramente, per quel poco che durò, la mia pesca ideale. Attiva, tattica, tecnica e soprattutto rispettosa, perché mi permetteva di pescare allamando i pesci sulle parti più esterne della bocca e, quando poi iniziai a pescare con gli ami senza ardiglione, di poter rilasciare tutte le prede con solo una feritina su labbro piccola come la puntura di un ago. Quindi senza che riportassero conseguenze per la loro sopravvivenza.
Fui un mattatore di black bass, un discreto cavenadista, presi pure qualche trota ma non riuscii mai ad allamare un luccio, che pure era invece la preda più ambita. E vabbé, non sempre si vince.
Ma con il passare degli anni, altre esigenze fecero capolino nell'economia delle mie giornate. La morosa, gli amici, finalmente quelli veri e una mole maggiore di impegni. L'università, gli esami, il costo dei libri... mal si accordavano con tutte le esigenze di tempo e denaro che la pesca richiedeva. Così pian piano, quasi senza nemmeno accorgermene, la abbandonai.
Terminata anche questa parentesi per qualche anno, sul versante "natura" rimasi molto meno attivo. Però quello che della pesca mi piaceva, ovvero la libertà, lo stare in mezzo alla natura, non mi abbandonò di certo, anche perché in realtà fu proprio quella la spinta verso la pesca stessa.
In quegli anni, poco prima che la mia carriera piscatoria terminasse, iniziai infatti a tornare al Pincio. Il Pincio è un monte degli Appennini di questa parte d'Italia ed è li che capii cosa stava all'origine di tutto il mio mondo ideale. Capii perché mi piacesse fare ciò che mi piaceva fare e perché al contrario altre attività non mi trasmettessero alcunché. Li capii perché la pesca e non il wind surf. Li capii perché camminare e non nuotare. Li capii perché le castagne e non le cozze. Io ero un montanaro, finalmente era chiaro. Niente sabbia e alghe, ma terra e alberi. Quella era casa mia.
Ma perché tutto ciò diventasse evidente, dovette arrivare un periodo abbastanza cupo.
Era il secondo anno di Università a Bologna. Avevo dato pochissimi esami ed anzi, avevo collezionato più bocciature che altro. Bologna era una città che mi stava troppo grande. A 20 anni io mi ci perdevo, mi ci divertivo anche per carità, ma non era per me possibile concentrarmi, li. Non sapevo organizzarmi e le scadenze mi arrivavano addosso con violenza, nonostante chiunque altro avrebbe avuto tutto il tempo e il modo per prepararsi e non farsi travolgere. E infatti gli altri lo facevano. Era a me che non riusciva.
Maturai infine l'idea che era necessario chiudere quel capitolo. Stavo facendo spendere soldi ai miei genitori, perché i miei fondi non bastavano di certo per pagare retta, libri e affitto dell'appartamento, e non portavo a casa nessun risultato. Bisognava porre subito fine a quella perdita di soldi e di tempo, e lo feci. Feci forse la prima cosa da adulto, sobbarcandomi le conseguenze di un mio fallimento. Non sarei mai diventato un Chimico Farmaceutico. I parenti già rumoreggiavano.
Ma i miei genitori non mi fecero mai pesare la cosa. Loro si, davvero lungimiranti, capirono che calcare la mano avrebbe avuto come unico effetto quello di ficcarmi sempre più in un gorgo da cui in quel momento di molta confusione avrei fatto una gran fatica ad uscire. Fecero una cosa all'apparenza banale, ma che al contrario denota grande forza, saggezza e anche fiducia nei miei confronti: mi lasciarono libero.
Dopo qualche mese, infatti, tornai a respirare di nuovo e vedere un po' più chiaramente e serenamente il futuro. Monte Pincio fu un luogo ideale, riparato, accogliente, in cui raccogliere i pensieri e ripartire. Le brevi ma più frequenti parentesi che riuscivo a passare in quei luoghi mi ridiedero slancio, perché mi facevano vedere il mondo da un'altra prospettiva, soprattutto perché li, alla Casa del Pincio, ci andavo proprio con i miei genitori che durante le lunghe serate davanti al camino mi raccontavano della loro vita passata a fare i conti ogni giorno con la povertà, con le emergenze e mi fecero capire che se ce la avevano fatta loro a crearsi una vita soddisfacente che erano partiti da niente, ci sarei riuscito anche io. La mattina poi ci si alzava presto e con mio padre facevamo sempre una passeggiata fino alla cima del monte, prima di colazione. Guardavamo il bosco svegliarsi pian piano, mentre il sole sorgeva lentamente in quei giorni d'autunno. Le giornate erano scandite dal ritmo del giorno stesso, non da orologi e programmi televisivi. Capii che gli impegni, il lavoro, l'univerisità, gli esami, sono cose importanti ma non sono il mondo. Il mondo fuori ci sarà sempre, che tu sia un chimico farmaceutico o un operaio. Ci sono doveri che per il nostro ruolo o professione dobbiamo sbrigare, ma non dobbiamo permettere a questi di consumarci la vita, perché la vita è altrove. E' quella che si vive con le persone care, magari condividendo lo spettacolo di un'alba al Pincio. Quest'occhio più sereno sulla quotidianità contribuì alla volontà di volerla sfidare di nuovo, proprio perché le aveva ridato la sua giusta importanza e prospettiva.
Da quando, in quell'autunno, tornai a frequentare la casa al Pincio, mi dissi che non sarei mai più rimasto così tanto tempo lontano da quei luoghi.
Terminata l'esperienza universitaria a Bologna, l'estate successiva iniziai a lavorare come magazziniere. Tornai alla base, al lavoro manuale e di fatica, ma sereno e senza tanto stress. Incontrai persone semplici e vere che non mi giudicarono perché avevo abbandonato l'università prima di approdare li, ma anzi mi chiedevano tutti curiosi che cosa si facesse per davvero in un'università. Qualcuno mi chiamava Doc, anche per percularmi naturalmente, ma bonariamente e quando il mio contratto da estivo giunse alfine al termine tutti, TUTTI, i miei colleghi mi spinsero a riscrivermi all'Università. Naturalmente era un'intenzione che già covavo dentro di me, ma ammetto che quella spinta non fu così secondaria per farmi prendere la decisione definitiva di riprovarci.
Nel frattempo però, qualcosa della precedente esperienza universitaria era rimasto e si stava anzi rafforzando. Claudio, mio grande amico sin dai tempi del Liceo, fu poi mio compagno di appartamento per i due anni in cui frequentai Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Fu molto dispiaciuto quando gli comunicai la mia decisione di ritirarmi, ma per fortuna tale decisione non ebbe conseguenze sulla nostra amicizia anche perché non ci perdemmo certo di vista, dato che tutti week end comunque anche lui tornava nella nostra città natale.
Prima di compiere il decisivo passo indietro, inoltre, ebbi l'occasione di conoscere anche Stefano e Donato. Non diventammo amici da subito. Molto per colpa della mia timidezza dell'epoca e un po' perché una volta terminata la mia esperienza a Bologna ebbi pochissime occasioni per vederli nei mesi subito successivi. Stefano abitava proprio a Bologna, mentre Donato era di Forlì. Il week end non scendevano certo a Rimini come Claudio.
Però Stefano a Rimini ci veniva sempre in estate e fortunatamente per tre mesi quasi interi. Fu durante l'estate successiva, infatti, che diventammo veramente amici. Una sera mentre era in macchina con me, per questioni di convivenza in abitacolo si stavano facendo due chiacchiere generiche, mentre percorravamo un imbottigliatissimo lungomare (a quel tempo i turisti qua non mancavano mai). Dal parlare del più e del meno, finimmo in poco tempo a parlare di argomenti sempre più personali che in quegli anni ruotavano sempre e immancabilmente intorno alla ragazza di turno che non ricambiava il nostro interesse. Ci scoprimmo così molto simili, anche nella nostra poca fortuna con l'altro sesso e nelle settimane successive cominciammo a vederci quasi tutte le sere, insieme anche a Claudio, finendo puntualmente a bere in un famoso bar del sangiulianese. A fine estate sembrava che anche con lui mi conoscessi da sempre.
Con Donato invece la vicenda fu più spezzettata e ci volle un po' più tempo affinché riuscissimo a prendere la giusta confidenza per capire se fossimo veramente personalità compatibili. Le posizioni di partenza, d'altronde, sembravano assai lontane. La prima volta che venimmo a contatto, diciamo così, fu durante il mio ultimo anno di frequenza di CTF. Eravamo nello stesso corso di non mi ricordo quale materia e finita la lezione un giorno mi si avvicina e mi fa: "Tu sei amico di Claudio, vero? Sono in macchina, ti do uno strappo io a casa se vuoi". Accettai. Per paura, mica per altro. Perché il Donuccio in quel periodo mica sembrava un bimbone pacioccone (manco adesso in verità). E' vero che pesava si e no 60kg a stomaco pieno, ma a vederlo incuteva comunque un certo timore. Almeno a me. Era vestito sempre di nero, con occhiali scuri, Camperos e alla fibbia della cintura portava un pezzo di caricatore di M16. Il che non è che contribuisse a conferirgli proprio quest'aria di affidabilità.
Mentre poco dopo montavo sulla sua Golf nera decapottabile, pensavo: "Mo' questo mi porta in un campo e sacrifica il vitello grasso al demonio, sta a vedere...". Invece no, fui accompagnato a casa sano e salvo e, giuro, non esagero, per dire quanto ero fuori dal mondo, mi meravigliai un sacco che uno come lui, anzi come mi immaginavo fosse uno come lui, chiedesse un sacco di cose su me, sul mio passato, su cosa mi piacesse fare, se ascoltassi musica (io all'epoca facevo finta che mi piacesse il raggae), se mi trovassi bene li all'università. Ok, avevo sempre il timore, di fondo, che fossero tutte informazioni che gli servissero per organizzare al meglio il sacrificio di cui sopra, però ammetto che stavo cominciando a considerare l'ipotesi che tutto sommato fosse un buon diavolo... tanto per rimanere in tema. Capitò poi che ci vedessimo dopo molto tempo, quando Claudio si laureò e io salii a Bologna per seguire la sua discussione di Tesi e per i successivi, dovuti, festeggiamenti. Trovai Donato un bel po' cambiato. Aveva messo su qualche chilo, aveva inserito qualche altro colore nel suo guardaroba e aveva una fissa che rasentava il patologico per Baldru's Gate. Li avemmo modo di parlare un po' di più e conoscerci meglio. Certo, non emerse ancora per un po' un granché in comune, ma ci si trovava bene a chiacchierare e a magnare, e tanto bastava. Bastava per far si che gli incontri continuassero e finalmente i punti in comune uscissero, specialmente, ed è incredibile da dire guardando alle premesse del nostro primo incontro, caratterialmente.
Non starò ora a continuare l'elenco di tutte le volte che ebbi modo di rivedere Donato e Stefano finché non diventarono insieme a Claudio i miei più cari amici, basti sapere che così successe. E dall'amicizia che finalmente ci legava nacque l'idea di un campeggio estivo. No, non quello famoso. Quello precedente.
Donato, che come detto era del forlivese, era a conoscenza di una sagra che si svolgeva tutti gli anni, ad Agosto, a Premilcuore. Premilcuore (FC). Perché Premilcuore è in provincia di Forlì-Cesena. Non come Perticara, che invece è in provincia di Rimini. Ah-ehm....
Passammo il we della sagra del cinghiale tra bagordi inenarrabili e post sbornia memorabili, ma li, sotto i fumi dell'alcool, partorimmo un altro progetto. Un fatto che fu poi il vero innesco della mia evoluzione di montanaro. La prima uscita in trekking.
Di nuovo, non starò a riraccontare quelle gesta che sono ben conosciute dalle uniche due persone che probabilmente finiranno per leggere questo post. Uno perché le ha vissute e l'altro perché gliel'avrò raccontate almeno dieci volte.
Mi soffermerò sull'essenziale, ovvero su cosa quell'esperienza c'entri con il discorso dello "scrivere della montagna".
Tralasciando i fatti, quel che portai a casa dopo quella settimana fu una profonda sensazione di insoddisfazione e malinconia che non mi abbandonò per settimane. L'insoddisfazione non riguardava naturalmente i giorni trascorsi in escursione, quanto per quel che quei giorni mi avevano rivelato e che avrebbe pesato poi per sempre nella misura della soddisfazione di ciò che a quei giorni sarebbe succeduto. Non so se mi sono capito...
Facciamo un passo indietro ancora, per cercare di spiegare bene poi dove tutto questo discorso vuole andare a parare.
Durante buona parte della mia infanzia, pubertà, ma soprattutto adolescenza e tarda-adolescenza, io fui un gran ciccione. Ok, si, anche adesso lo sono. Mica lo nego. Ma rispetto ad allora posso dire che oggi sono un grissino.
L'apice della mia adiposità lo toccai proprio in concomitanza dell'anno del mio ritiro da CTF.
Quel che non toccai più era la punta dei piedi però, perché arrivai all'infelice traguardo di 130 e passa chilogrammi. La mia proverbiale facilità a cedere alle lusinghe della forchetta fu certamente fomentata dalla situazione in cui mi trovavo e dalla decisione che avevo preso: provavo vergogna verso i miei genitori, verso i miei ex compagni di università (gli stessi miei amici qui citati, che poi in CTF si sono tutti laureati) e naturalmente verso me stesso. Passavo buona parte delle giornate in casa, leggendo riviste di pesca e fagocitando qualsiasi cosa mi arrivasse a tiro.
Un aneddoto che racconto sempre, è che nel momento peggiore, in un pomeriggio, quindi per "merenda", mi mangiavo un intero tubo di Pringles, uno di Cipsletten della Balsen (tipo Pringles ma più piccole), una merendina al burro di cui non ricordo la marca ma mi pare fosse della Balsen anche quella (tanto per tagliare il sapore salato con un po' di dolce) e per finire una confezione intera di anacardi. Poi naturalmente la sera cenavo normalmente, perché tutte queste cose le mangiavo di nascosto e se non avessi cenato poi i miei genitori si sarebbero insospettiti (e comunque non è che mi dovessi sforzare più di tanto per farlo) e dopo cena mangiavo ancora! Spesso un piada intera con salame e maionese.
Insomma, per quel che mi trangugiavo ero persino troppo magro.
Finii dopo qualche mese di questa... dieta, con la pressione alle stelle (a 20anni!) e una duodenite piuttosto fastidiosa. E ben che mi andò!
L'autunno successivo fu quello famoso del Pincio, in cui passai qualche week end con i miei genitori li alla Casa e che fu l'inizio del risveglio. L'estate dopo decisi finalmente che dovevo darmi una mossa e spinto anche dai discorsi di mio padre e di mia madre, mi cercai e mi trovai un lavoro. Andai a fare il magazziniere, come scrivevo prima e oltre a trovarmi bene con i colleghi, il lavoro "manuale" mi regalò anche qualche chilo in meno senza nessuna dieta particolare. Senza contare che il pomeriggio, lavorando, non avevo certo il tempo di ingozzarmi di pringles e compagnia e la sera dovendo andare a letto presto non riuscivo più ad indulgere in piadine ed affini.
Contemporaneamente a questo dimagrimento regalato dalla vita, è il caso di dirlo, nacque in quei mesi anche una piccola relazione con un'esponente del gentil sesso. Questo improvviso, apparente, successo, riempì in parte il vuoto che in genere veniva occupato dal cibo e anzi, mi diede spinta per continuare l'opera di dimagrimento che era iniziata quasi per caso. Tanto che un giorno, senza nemmeno averlo programmato, presi la mia MTB, inutilizzata dai tempi in cui mi fu regalata a 12 anni e dissi a mia madre: "Vado a fare un giro in bici. Ci vediamo dopo.". Lei fece una faccia come a dire "Bici?? Tu!?!?!?". Ma non le diedi tempo di parlare, non volevo smontare quella spinta che aveva sorpreso anche me e imboccai pedalando il cancello di casa dirigendomi verso le prime stradine di campagna.
Nel frattempo il lavoro estivo era terminato e con quell'esponente del gentil sesso... beh... se dico due di picche credo di aver già spiegato a sufficienza. Ma ormai il meccanismo era stato messo in moto ed era diventato inarrestabile. Quell'autunno partecipai al test d'ingresso per Psicologia, lo superai anche piuttosto bene e venni ammesso al Corso di Laurea. Non ancora filiforme e sebbene molto più maturo rispetto a solo due anni prima, ero comunque ancora poco avvezzo a farmi compagnie in poco tempo in un contesto nuovo e vasto come quello universitario. Ma il bello dell'università è che ti fa crescere anche socialmente, oltre che culturalmente.
In verità fu la compagnia a venire a cercare me e fui certamente fortunato, si. Però questa volta mi feci anche trovare pronto e rispetto al passato mi forzai a non chiudermi a riccio. Mi ero veramente rotto le palle, scusate il francesismo, di essere sempre lo sfigato che stava in disparte.
Conobbi tante persone e soprattutto tante ragazze (mica per niente Psicologia, eh! ;-D). Ok, non ci combinai mai niente, anche perché poco dopo mi ammorosai proprio con una esponente della compagnia con cui uscivo già da tempo nella mia città e che tutt'ora è la mia compagna, ma soprattutto il primo anno, quando ancora ero single e circondato da tutta quella f... folla di belle ragazze, che sebbene non sembrassero interessate quanto lo ero io, comunque almeno non mi schifavano, fu un carburante notevole perché il cambiamento che avevo messo in moto non si arrestasse.
Intensificai i giri in MTB, tentai le colline oltre che la pianura e pian piano riuscii ad ottenere una buona forma. Non faticavo più tantissimo e il giro in bici era diventato così piacevole da passare ad essere un'abitudine quotidiana. Insomma arrivai al peso, incredibile, lo dico senza falsa modestia, di 78Kg. Ma non ero cambiato solo nella forma esterna, ero cambiato anzi soprattutto dentro. Quel che non ero mai stato capace di fare in un ventennio, l'avevo trasformato in realtà in nemmeno due anni. Ero magro, avevo amici veri e ora avevo persino una ragazza.
Questo nuovo me stesso si era liberato dalla depressione post CTF e dalla vergogna che l'aveva generata. Avevo una vita tutta nuova e pitturata di fresco.
Quel preciso momento della mia vita coincise proprio con la prima uscita a trekking compiuta con coloro che a tutt'oggi sono le persone più care che ho, insieme alla mia compagna, mia figlia e i miei famliari. Non fu solo l'epilogo della mia trasformazione, ma l'apice e la vera conferma della stessa. Un'uscita a trekking... io...
Pensate ora solo per un attimo al ciccione che si ingozza di tutta quella robaccia in un pomeriggio passato in solitudine sul divano di casa. Pensate che è la stessa persona che solo due anni dopo partecipa con entusiasmo, voglia e un'eccitazione da non stare nelle braghe ad una settimana di trekking. Sudore, fatica, sete, adattarsi alle condizioni in cui ci si trova, spirito di improvvisazione e risorse morali, tutte cose presenti e necessarie per un trekking di più giorni nei boschi. Chi l'ha fatto anche una sola volta nella sua vita sa bene che è così.
A pensarci su un attimo, tutto questo mal si concilia con l'immagine di quel ciccione con le pringles, no? La mia passione per la montagna che già sapevo esistere, e che è stata una delle spinte motrici di tutta la trasformazione che vi ho raccontato, ha trovato in quella settimana la sua definitiva consacrazione ed espressione. In quei giorni quel nuovo me è approdato finalmente alla sponda di quel mare che stava attraversando. Vabbé, dai, non facciamo troppo i drammatici, diciamo che era un lago, non un mare.
Comunque, in quella piccola avventura trovai una dimensione nuova. Mi sentivo bene, mi piaceva tutto quello che stavo vivendo e soprattutto mi sentivo finalmente parte attiva e fondamentale di una bella cosa che avevo programmato e messo in pratica con i miei più cari amici.
La Domenica successiva, al termine della nostra avvenura, tornai a casa con un senso di grande insoddisfazione come dicevo. Ora forse capirete perché. Quel momento fu per me così importante da essere un vero e proprio punto si svolta, uno spartiacque vero e proprio tra una mia fase di vita e l'altra. Li, tutto quel che di nuovo e costruttivo avevo scoperto in me stesso aveva avuto in ogni istante la possibilità di esprimersi, di palesarsi. Aveva avuto in quei luoghi e con le persone che erano con me, il suo contesto di esistenza ideale. Come poteva quindi non rimanere un minimo di insoddisfazione sapendo che quella dimensione non ero in grado di importarla nella mia quotidianità? Si, ha comunque avuto un effetto su di essa, certamente. Ma rimanevano e rimangono ancora due entità distinte.
L'unica soluzione sarebbe importare la mia quotidianità in quella dimensione. Questo sarebbe tecnicamente possibile. Ma sarà difficile...