martedì 9 dicembre 2014

Videogames - GTA V


Le matte risate.
GTA V esce a Settembre del 2013 (per old gen) edito da Rockstar Games.
La software house newyorkese negli anni si è sviluppata ed è cresciuta tanto da aprire altri studi di programmazione sparsi per il territorio americano e non.
La succursale più celebre è la Rockstar North, con sede ad Edimburgo e principale artefice della serie Grand Theft Auto. Il suo simbolo è una "R" in stampatello nera con stella bianca in campo blu, che guardacaso in ogni GTA compare subito il logo della Rockstar Games che è una "R" identica alla precedente ma in campo giallo (come si vede in basso a destra nell'immagine postata sopra).
Il tema principale di tutti i GTA è la malavita. In ogni capitolo il giocatore interpreta un personaggio legato ad ambienti malfamati, violenti, privi di scrupoli. Si devono organizzare ed attuare colpi in banca, uccidere personaggi scomodi ai boss o membri delle gangs rivali, consegnare droga, fare il giro delle prostitute legate ad un protettore per riscuotere la percentuale, ecc... insomma, si impersonifica un criminale, questo è quanto. Un antieroe. Un delinquente.
Ma ridurre GTA a questo non solo è banalizzarlo, ma è anche raccontare la metà della verità. Quella che fa comodo alle associazioni un po' bigotte che devono vedere il diavolo dietro ogni cosa che non contenga un carmina burana.
GTA è non certo l'esaltazione della malavita o della mafia. Anzi. E' la loro caricatura. Le storie sono assurde, spesso imbarazzanti per i protagonisti e smontano quell'aura di "rispettosa" paura che il cittadino medio prova verso queste entità. Ti fa ridere della malavita, prendendola in giro dall'inizio alla fine, restituendone una versione sgangherata, ridicola, dove i suoi componenti in realtà sono vittime della loro stessa condotta di vita e non certo dei vincenti.
Infatti, l'altro tema principale, o forse il vero tema principale, di tutti i GTA, è la ricerca della felicità e della realizzazione dei protagonisti, dopo una vita passata in mezzo alla peggior mondezza della società. Non sempre, ma in molti capitoli tale ricerca passa anche dall'emancipazione dagli stessi ambienti malavitosi che fanno da sfondo alla storia.
Quel che bisogna comprendere, specialmente se non si è mai giocato ad uno dei capitoli della saga, è che quel che viene proposto al giocatore è una visione quanto mai distruttiva della delinquenza, che non rappresenta mai per i protagonisti la via per l'affermazione personale, ma nemmeno per la vera felicità. Viene chiesto di provare a calarsi nei panni di personaggi che vivono sempre in mezzo al pericolo, pieni di nevrosi, di paure e che sviluppano quasi sempre una propria etica che si distacca sensibilmente da quella degli altri malavitosi. Vi sono esempi di alcuni di questi che hanno cercato di rifarsi una vita e che si sono trovati a dover difendere se stessi e la propria famiglia dai tentativi di vendetta da parte degli ex amici (vedi il Michael dell'ultimo GTA).
Tuttavia, sia chiaro, non è nemmeno un videogioco ipocrita. Nessun protagonista, nemmeno il più etico, ne esce in maniera pulita e cristallina. Quando commetti l'errore di votare parte della tua vita alla delinquenza, non ne uscirai mai lindo. Dovrai sempre accettare compromessi squallidi, tradire chi non vorresti e nella migliore delle ipotesi condurre un surrogato di vita normale, perché l'alternativa serebbe quella di finire ammazzato. Questo secondo me è uno dei più importanti messaggi di fondo che, sia stato messo li apposta o no, emerge comunque sempre in ogni capitolo.
Ma voglio essere onesto. Seppure mi sento di difendere in toto questa produzione, che non incarna il male in nessuna maniera, non voglio neppure far passare l'idea che la RockStar sia una software house dedita all'educazione civica. Semplicemente la serie di GTA è un prodotto di intrattenimento intriso di black humor e senza nessun intento di magnificazione della delinquenza. Le fondamenta su cui poggia sono l'ironia, l'esagerazione, il grottesco, il tutto però sviluppato in maniera eccellente, mai grossolana, soprattutto per quel che riguarda la profondità e la caratterizzazione dei personaggi (davvero invidiabile e raggiunta poche altre volte da altri titoli games), la trama e dei dialoghi da far impallidire tantissime produzioni hollywoodiane anche di grande successo. Passando, per fare un paragone, da Tarantino, a Spike Lee a, di volta in volta, l'America dei gangtser alla Goodfellas, a quella delle gangs di motociclisti, a quella dell'ultimo capitolo che ha anche un po' di quel climax da grande colpo alla Ocean's Eleven (ma senza la faciloneria). Lo scopo principale è comunque il far ridere, il divertire.

Okay, parliamo ora e finalmente proprio dell'ultimo capitolo, come da titolo: GTA V.
ATTENZIONE: da qui in poi SPOILER.

Trama (potrebbero esserci piccole inesattezze; non è che mi ricordi tutti i passaggi nei  minimi dettagli):
Rispetto ai precedenti capitoli , la prima grande differenza è che non dovremo più interpretare un solo protagonista, ma ben tre: Franklin Clinton, Michael Townley e Trevor Philips.
Il gioco inizia con Michael, Trevor e un loro amico Brad Snider, mentre stanno portando a termine un colpo in un deposito a Ludendorff, nel North Yankton (tutti i nomi delle località citate nel gioco sono frutto di fantasia, seppure spesso sono copie di città realmente esistenti). L'idea è quella di mettere a segno una rapina che frutti abbastanza ai tre da potersi ritirare dal giro e poter vivere di rendita per il resto della vita.
Ognuno ha progetti diversi, ma fondamentalmente tutti e tre vogliono affrancarsi dall'esistenza condotta fin li. Quel che li lega è una profonda amicizia, sentita specialmente da Trevor, il personaggio più controverso (dopo vedremo perché).
Michael è una specie di ladro gentiluomo, usa spesso frasi ad effetto, un po' alla George Clooney in un film dei Coen, e una di queste lo tradirà molti anni dopo. E' una frase che dice alla guardia del deposito che stanno rapinando, quando decide di non ucciderla pur essendo stato visto in faccia. Per fargli capire che non deve parlare usa più o meno queste parole: "La gente si scorda ogni giorno di un sacco di cose, che ne dici tu di scordarti questa?".
La rapina però fallisce. La polizia li intercetta in forze e i tre sono costretti a separarsi durante la fuga. Brad viene ucciso. Micheal viene ferito e catturato. Mentre l'unico che riesce a scappare è Trevor incitato ad andarsene proprio da Michael.
Trevor si rifugia a Sandy Shores (località desertica posta a nord est nella mappa del gioco), andando a vivere in una roulotte. Per un po' sta tranquillo, volendo far credere di essere morto. Ma dopo qualche tempo, insieme ad un complice, inizierà a spacciare metanfetamine fondando la Trevor Philips Enterprise, rivaleggiando con una banda del posto. Nei vari accadimenti di questa prima parte della sua porzione di trama, si fa nemico anche un grosso esponente della mafia cinese, tale Cheng, che vorrebbe entrare a far parte della società per avere la sua fetta di torta, che però Trevor gli spalma bellamente in faccia.
Michael, invece, come detto prima viene catturato dalla polizia e l'FIB (cioé l'FBI), lo mette in un programma di potezione testimoni in cambio della sua collaborazione. Inoltre gli viene permesso di trattenere parte del bottino del colpo.
Perché il porgramma di protezione possa funzionare, l'FIB decide di inscenare la morte di Michael. Si tiene un funerale in cui però ad essere seppellito è l'amico deceduto Brad. Trevor assiste al funerale di nascosto convinto che Michael sia morto e sia suo il corpo che si sta seppellendo durante la cerimonia, e che Brad sia invece stato catturato e stia scontando la pena in prigione.
Inizia così a scrivere all'amico che crede vivo, disperandosi nelle sue lettere per la morte di Michael. Per perorare la sua convinzione, l'agente dell'FIB che ha in custodia Michael , Dave Norton, intercetta le lettere di Trevor e si finge Brad, iniziando una vera e propria corrispondenza che durerà anni.
Michael e la sua famiglia vengono trasferiti dal programma di protezione a Los Santos (Los Angeles, ricostruita e curata nei dettagli in maniera sorprendente) nel quartiere di Rockford Hills (Beverly Hills), nello stato di San Andreas. Con la moglie Amanda e due figli (un maschio James "Jimmy" e una femmina Tracey) conduce una vita agiata e all'apparenza tranquilla in una spledida e lussuosa villa. Il cognome di tutta la famiglia viene cambiato secondo il programma da Townley in De Santa.
Poco dopo si scopre che il programma di protezione non è stato offerto a Michael solo in cambio della sua collaborazione, ma è stato ricattato dall'agente Norton che l'ha poi preso in custodia. Il quale gli ha permesso di rifarsi una vita sotto la protezione del Bureau e di tenersi buona parte del bottino, in cambio di una percentuale di questo.
La trama, conclusosi l'episodio del colpo al deposito che ha delineato le situazioni di partenza di Michael e Trevor, passa ad occuparsi completamente di Fraklin che all'inzio non ha nessun rapporto con i due. Anzi nemmeno li conosce.
Franklin vive del ghetto con sua zia Denise, nella casa che sua madre, morta qualche anno prima per problemi di droga, ha lasciato ai due. Frequenta il liceo insieme a Lamar Devis e Tonya Wiggins, due personaggi secondari che occupano un ruolo chiave nella prima parte di storia del nostro primo protagonista.
Franklin insieme a Lamar si dedica pincipalmente alla piccola delinquenza, ma non fa parte di nessuna banda particolare. Tuttavia entra in contrasto con i Ballas una gang del quartiere che vuole il monopolio su tutto il traffico che vi si svolge.
Franklin è un po' lo stereotipo del bravo ragazzo nato nel posto sbagliato. Di indole riflessiva si rivela spesso il personaggio più saggio del gioco, seppure sia il più giovane. Dagli sviluppatori è stato scelto come il carattere principale della storia per lo meno per la longevità prevista del suo personaggio, poi vedremo in che senso. Preciso solo che non voglio certo intendere che la sua porzione di trama predomini su quella di Michael e Trevor. Tutti e tre i personaggi sono portati avanti in parallelo, con uguale profondità e ampiezza di interpretazione.
Franklin, insieme al solito Lamar, inizia anche a lavorare per un truffaldino concessionario di auto armeno. Il loro intento è cercare di uscire dalla delinquenza spicciola, degradante e pericolosa del ghetto, convinti di aver trovato un lavoro normale, seppur scansato da molti: quello di repo-man. Il concessionario Simeon Yeterian, infatti, li assume con l'incarico ci riportare al salone le auto dei clienti che non pagano le rate del finanziamento. La truffa consta nel vendere auto di lusso a clienti che non possono permettersele, intascare le prime rate che questi riescono a versare e poi riprendersi l'auto al primo mancato pagamento, per poi rivendere la stessa auto ad un altro cliente spiantato e ricominciare la truffa. Sia Lamar che Franklin non sono consapevoli delle intenzioni disoneste del loro datore di lavoro o comunque non se ne interessano. Portano solo a termine gli incarichi. La prova se ne ha quando Franklin viene incaricato da recuperare un auto di un cliente insolvente in quartiere ricco della città.
L'auto appartiene al figlio di Michael e questi, venuto a conoscenza della truffa del concessionario, si nasconde sul sedile posteriore dell'auto in attesa del repo man. Quando Franklin sale sull'auto, Micheal salta fuori e minacciandolo con una pistola lo costringe a dargli informazioni. Da queste si accorge che effettivamente Franklin non sapeva della truffa decide di non ucciderlo ma lo costringe ad irrompere con l'auto nella concessionaria, sfondandone le vetrate. Oltre al danno causato, Michael, trovato Simeon, lo convince non proprio con le buone che è meglio se lascia stare l'auto del figlio e che ha capito che tipo di truffa sta attuando. Ottiene così che l'auto gli sia lasciata, ma Franklin verrà in seguito licenziato da Simeon per avergli distrutto la concessionaria. Michael allora, venuto a sapere della cosa e sentendosi responsabile, prende Franklin sotto la sua protezione diventandone prima amico, poi il mentore e infine quasi un padre. Come farà poi notare argutamente e gelosamente Trevor più avanti nella trama, per Micheal Franklin è il figlio intelligente, risoluto, obbediente e fedele che avrebbe sempre desiderato, essendo il suo vero figlio Jimmy un rammollito bambinone viziato dedito alla droga e ai video games (a me ha ricordato parecchio il Jack Osbourne del primo reality di MTV su Ozzy e famiglia). Per Franklin invece Micheal è la figura paterna che non ha mai avuto, qualcuno che si prendesse cura finalmente di lui e che gli insegnasse qualcosa, anche se questo qualcosa non era diventare un cittadino migliore ma un criminale migliore.
Se da una parte tale rapporto viene semplificato dal carattere corretto e fedele di Franklin, dall'altra lo stesso Micheal è inconsapevolmente alla ricerca di qualcuno di cui potersi fidare, che riportasse nella sua nuova vita fin troppo agiata un qualcosa di quella vecchia, che seppure pericolosa lo faceva sentire vivo.
Michael infatti, si accorge presto di non riuscire ad abituarsi alla sua neo condizione di riccone padre di famiglia sedentario. SDiventa sempre più insofferente e i rapporti sia con la moglie che con i figli si fanno quanto mai tesi. Lacerato tra la sua voglia di evadere e la percezione di non essere il padre e il marito che lui stesso avrebbe voluto essere, sviluppa una sfilza di nevrosi che lo rendono labile, lunatico e antipatico. Inizia anche a frequentare uno Psichiatra che però non solo non sarà in grado di aiutarlo veramente, ma alla fine lo turlupinerà anche.
Comunque il comportamento fragile di Micheal fra le mura domestiche fa si che il figlio così si allontani sempre di più, la figlia diventi una mezza porno star e con la moglie il matrimonio si trasformi in una specie di tregua armata, resistendo solo perché costretta a rimanere per via del programma di protezione testimoni.
Il tutto crolla quando Micheal torna a casa e trova la moglie a letto con il maestro di tennis. La scusa per l'ira che ne segue è che i tradimenti erano concessi ma al di fuori delle mura domestiche, ma in realtà Michael è genuinamente geloso della moglie, che non ha mai smesso di amare.
L'epilogo sembra scontato: un marito ex (ma neanche tanto) criminale che trova l'amante della moglie in casa, uguale a: ci scappa il morto. Tuttavia l'intormissione della moglie che ricorda a Michael che anche lui l'aveva tradita una volta tra le mura domestiche, permette al maestro di tennis di scappare. Nel frattempo sopraggiunge Franklin, con cui Michael aveva appuntamento a casa per parlargli di affari. Franklin assiste alla scena della fuga del maestro di tennis e vede Michael uscire di casa infuriato. Quest'ultimo senza spiegargli gli intima di salire in macchina per aiutarlo nell'inseguimento, che termina ai piedi di una lussuosa villa con un ampia ala poggiata su alte palafitte. Accecato dalla rabbia, Michael lega il cavo del verricello di un potente fuoristrada ad uno dei pilastri sui cui poggia la casa che crede appartenere al maestro di tennis e inizia a sgasare per far crollare l'ala dell'edificio e vendicarsi. Nonostante i tentativi di dissuasione di Franklin, Michael insiste e riesce nell'intento. Purtroppo scoprirà che quella che ha distrutto non è la casa del maestro di tennis, ma quella dell'amante di un potente trafficante di droga messicano Martin Mandrazo, "allieva" anche lei dell'allegro maestro di tennis.
Sarà lo stesso Mandrazo a rendere Micheal e Franklin edotti dell'errore commesso, presentandosi a casa di Michael di ritorno dalla sua bravata con Franklin. Dopo averlo fatto picchiare dai suoi uomini ed essere riconosciuto da Franklin, propone ai due di lasciarli in vita se si impegneranno a risanare il danno procurato che ammonta a diversi  milioni di dollari. Costringe quindi Michael a rientare nel giro per mettere a segno un colpo abbastanza grosso da fruttargli il denaro necessario per il risarcimento. E qui inizia la prima vera missione del gioco.
Michael contatta Lester Crest un cervellone che l'aveva già aiutato ai tempi della sua vecchia vita, mente ed organizzatore dei colpi messi a segno con la vecchia banda comprendente anche Trevor e Brad. Insieme a Franklin, che riceverà il battesimo del primo grande colpo della sua vita, Michael deve scegliere altri collaboratori e sarà il giocatore a dover effettuare questa scelta.
Innanzi tutto vengono proposti due approcci: uno furtivo, più lungo e complicato, ma se attuato bene anche il più remunerativo e tranquillo, ed uno d'azione, dove si privilegia l'irruzione di forza: rapido e meno complicato da preparare, ma più rischioso. In base all'approccio scelto si possono poi decidere i collaboratori. Vengono proposti tre classi di complici: un tiratore, un hacker e un guidatore. Ogni classe offre tre possibili personaggi che variano a seconda dell'esperienza e dell'efficacia nel loro ruolo, che inciderà sulla parte di bottino che dovremo corrispondergli. Più sono bravi, più vorranno essere pagati. Ma è ovvio che a seconda dell'approccio scelto si potrà risparmiare su determinate classi di complice e investire invece su altre.
Per il colpo viene scelta la gioielleria più lussuosa della città.
Dopo le varie fasi di preparativi, la rapina viene messa segno e Michael e Franklin si trivoreanno con un bel gruzzoletto, con cui potranno saldare il debito con Mandrazo.
Ma Michael si tradisce. All'uscita della gioielleria si scontra con una guardia che terrorizzata cade a terra disarmata. Potrebbe ucciderla in modo da non lasciare testimoni, ma il suo animo egocentricamente goliardo gli impedisce di compiere un'azione così "banale". Quindi, come successe a Ludendorff, la risparmia pronunciando la stessa frase che disse allora.
Il colpo va a buon fine, ma la stampa, accorsa sul luogo per un servizio, intervista la guardia (appunto l'unico testimone). In diretta TV la guardia racconta la sua esperienza e ripete davanti alle telecamere la frase di Michael, rimastagli ben impressa.
In quel momento, nel deserto di Grand Senora, a Sandy Shores, un uomo nella sua roulotte sporca e trasandata sta guardando la TV. E' Trevor. La frase di Michael anche a lui era rimasta ben impressa, quando la pronunciò l'ultima volta che lo vide. Sentirla in televisione gli fa quindi capire che Michael è vivo e che al momento si trova a Los Santos.
Trevor è un pazzo psicopatico. Imprevedibile, nel bene e nel male. Ma soprattutto nel male. E' spietato, ingegnoso e capace di uccidere per un nonnulla. La sua mente contorta gli fa compiere sillogismi malati che lo portano a conclusioni aberranti, spesso in contrasto con la logica anche più spicciola. E' imprevedibile perché capace di vendicarsi per un piccolissimo sgarbo, così come di passare sopra ad "errori" madornali. E' indubbiamente un sadico, un individuo da internare, eppure ha una morale tutta sua estremamente spiccata. Soprattutto verso gli amici. Trevor considera gli amici (Michael e Brad erano i suoi migliori) la sua famiglia e si farebbe tranquillamente uccidere per uno di loro. Li ama visceralmente e come lui stesso afferma nel gioco ha pianto per anni pensando che Michael fosse morto. Ovvio quindi che se tale trasporto ed affetto venisse ferito rischierebbr di portare enormi conseguenze e Michael lo sa, e infatti ha una paura folle che Trevor prima o poi venga a scoprire che è vivo e che si è tenuto parte del bottino. Ma quel che più teme è che venga a sapere di essere stato ingannato circa la cattura di Brad. Michael sa che se Trevor venisse a scoprire che quello morto a Ludendorff era Brad e che c'è lui ora sottoterra in quel cimitero, la sua rabbia tracimerebbe e sarebbe quasi impossibile sfuggire ad una sua vendetta. Così, quando anche lui vede in televisione l'intervista alla guardia che riporta alle telecamere la frase da lui pronunciata al momento della fuga dalla gioielleria, si rende conto dell'errore commesso ed inizia ad avere paura.
E ha ragione. Trevor infatti mangia subito la foglia e si strasferisce a Los Santos a casa di un cugino del suo complice nello spaccio di metanfetamine (tutt'altro che contento di ospitarlo). Vuole trovare Michael.
Michael si rivolge a Dave, l'agente dell'FIB che cura la sua custodia e lo mette al corrente della rapina e del suo errore con la guardia. Quest'ultimo, a sua volta, gli confessa a quel punto di aver impersonato Brad nella corrispondenza con Trevor, fatto di cui Michael non era a conosceza, il che rende Michael ancora più preoccupato.
Trevor alla fine trova Michael, comparendo a casa sua con una delle entrate cinematograficamente più ad effetto viste in un videogioco. Inaspettatamente, è si arrabbiato con Michael, ma molto meno di quanto quest'ultimo si aspettasse. In realtà è solo arrabbiato perché il suo amico gli aveva fatto credere di essere morto e perché, visto come si era sistemato, si sentiva in credito di una parte del bottino che sicuramente Michael si era tenuto per potersi pemettere quello stile di vita. Ma non sospetta che quello morto sia Brad e fondamentalmente l'affetto che prova per l'amico è rimasto immutato ed è quasi più contento di poterlo vedere di nuovo piuttosto che arrabbiato per lo sgarbo. Infatti lo stesso giorno in cui ricompare accompagna Michael a recuperare sua figlia, possibile vittima sessuale di un poco professionale produttore televisivo, dicendo che nonostante fosse arrabbiato con Michael era suo dovere salvare l'onore della sua figlioccia Tracey.
La possessività di Trevor verso Michael, rende all'inizio complicati i rapporti con Franklin, che appare ai suoi occhi come un suo rimpiazzo.
Tutto sembra comunque proseguire abbastanza bene, finché la montagna di inganni non precipita quando Trevor scopre che quello sepolto al posto di Michael doveva essere Brad, dal momento che viene a sapere che colui che rispondeva alle sue lettere era l'agente Dave. Fino a quel momento infatti, Michael era riuscito a non rivelargli la cosa, lasciandogli intendere che sebbene la sua sepoltura fosse stata una finta, Brad era stato veramente catturato quel giorno a Ludendorff  e stesse veramente scontando la condanna in prigione. Il sospetto fa andare Trevor su tutte le furie, ma prima di far esplodere la sua rabbia deve verificare se la sua ipotesi è fondata. Si fionda in aeroporto e prende il primo volo per Ludendorff. Lo stesso fa Michael, dopo aver tentato di difendere telefonicamente con Trevor, senza fortuna, l'ipotesi che nella sua tomba non ci fosse Brad ma solo un sacco di patate.
Michael riesce a prendere il volo successivo e trova Trevor al cimitero di Ludendorff già intento a scavare. Quando finalmente la verità viene a galla Trevor estrae la pistola come per uccidere l'amico, ma la sua mano stenta a premere il grilletto e riesce solo a dargli una crocca sul muso col calcio.
In quel momento arriva la polizia, Trevor scappa e lascia Michael a doversela cavare da solo. Quest'ultimo con molta fatica riesce a fuggire e torna a Los Santos. Ma al suo ritorno, la sua famiglia dopo qualche giorno lo abbandona perché si rende conto che sta rimettendosi negli stessi casini da cui erano fuggiti. Si trova quindi solo, con l'unica amicizia di Franklin e la solita paura della vendetta di Trevor.
In mezzo alla già incasinata situazione s'insinua l'FIB con l'entrata in scena di un collega di Dave, l'odioso e ricattatore Steve Haines. Questi per contrastare lo spionaggio rivale dell'IIA (la CIA), ricatta Michael e gli chiede di compiere missioni per ostacolare od uccidere i personaggi scomodi. Franklin fedele com'è si offre di aiutarlo e in qualche modo riesce a farlo riappacificare, almeno in parte, anche con Trevor. I tre da una parte compiranno le missioni per conto dell'FIB e dall'altra cercheranno di rimettere in pratica il loro vecchio sogno: il Big One. Il grande colpo fallito anni prima a Ludendorff, che gli permetterebbe di fottere tutti e vivere di rendita.
Decidono quindi di rapinare la Union Depository, la banca più grande della città. Sarà una missione molto lunga e complicata, composta di diverse fasi. Non sarà semplice per il giocatore portarla a termine. Tuttavia nel corso della missione Michael e Trevor riusciranno a spiegarsi e a riappacificarsi. Anche se con Trevor non si può mai dire. Di nuovo sarà Lester la mente della banda e il giocatore dovrà scegliere modalità e complici.
E' una bellissima missione, in verità non la più difficile del gioco a mio avviso, ma ricca di avvenimenti, dialoghi, colpi di scena. Davvero un piacere da giocare. Alla fine della missione Michael riuscirà anche a riappacificarsi con la famiglia, promettendo loro che è finalmente uscito dal giro per sempre.
Comunque. Una volta messo a segno il colpo, prima che i soldi vengano distribuiti da Lester a tutti i componenti della banda, Franklin riceve la visita del viscido Haines a casa sua. Haines gli intima di uccidere Trevor, perché è un personaggio troppo scomodo ed imprevedibile. Inoltre Haines ha rapporti d'affari con tale Devin Weston proprietario della Merryweather Security, un'esercito mercenario privato. Devin ha avuto burrasche sia con Michael che con Trevor, così manovra Haines per chiedere a Franklin l'uccisione di Trevor, mentre poco prima telefonicamente chiede a direttamente a Franklin di uccidere Michael, dicendogli che quest'ultimo lo ingannerà come ha fatto in passato con Trevor e si tratterrà tutto il bottino.
A questo punto il giocatore viene messo davanti ad un scelta di tipo etico: accondiscendere ad una delle due richieste, uccidere quindi Trevor o Michael, e tenersi una percentuale più alta del bottino con Franklin e il personaggio supersistite, risparmiarsi un sacco di guai, ma perdere però uno dei tre protagonisti nel post trama principale (oltre che commettere un'azione infame), oppure non uccidere nessuno dei due attirandosi le ire di molti potenti, rimanere con meno bottino per ognuno dei tre personaggi ma averli ancora tutti disponibili per il prosieguo del gioco.
Naturalmente, a seconda della scelta che si fa, il finale sarà diverso.
Vi dico quel che ho scelto io e che forse immaginerete: salvare tutti e due.
Franklin convoca Trevor e Michael. Spiega loro la situazione e decidono di rendere partecipe della notizia anche Lester, che con il suo cervello sarà in grado di aiutarli. La prima cosa da fare è mettere fuori gioco la Merryweather e la parte dell'FIB fedele ad Heines. Preparano un'esca: alla fonderia centrale della città sta arrivando un carico di metallo da fondere che fa gola sia alla Merry che all'FIB. Tutti e tre, insieme a Lamar, tendono un'imboscata alle due compagini e massacrano tutti. Eliminata la parte armata, ora tocca ai nemici personali dei tre.
Ognuno ucciderà il nemico di uno degli altri, perché se questi vedessero avvicinarsi il diretto interessato capirebbero subito tutto.
Franklin uccide Cheng, l'esponente della mafia cinese diventato nemico di Trevor ai tempi del suo traffico di metanfetamine nel Grand Senora Desert.
Trevor uccide Haines, colpendolo col fucile da cecchino mentre questi sta concedendo un intervista sulla ruota panoramica del parco giochi di Los Santos.
Michel uccide Strech capo dei Balla, la gang nemica di Franklin che ancora gli da la caccia.
Infine ancora Trevor fa irruzione nella villa di Devin, il capo della Merryweather, lo rapisce chiudendolo nel baule della sua auto e lo porta su un promontorio isolato, che affaccia su un piccolo porticciolo. Qui, dopo diverse ore, lo raggiungono Micheal e Franklin. Dopo un sentitissimo discorso, davvero geniale, scaraventano l'auto nel dirupo, uccidendo infine anche l'ultimo nemico.
I tre, sul tramonto di Los Santos, rimangono d'accordo di non entrare mai più in affari uno con l'altro, ma di rimanere per sempre "uomini d'amicizia".

A questo punto, la trama principale del gioco ha termine. I tre, attuando il giocatore questa scelta, si troveranno con un bottino di circa 20.000.000 di dollari a testa. Da qui in poi rimangono le missioni secondarie per finire il gioco al 100% ma soprattutto tutta la parte di free roaming e free management dei personaggi. Acquistare auto, velivoli, acquistare proprietà e gestirle, difendendole anche dagli assalti dei rivali e dei rapinatori, giocare in borsa. Insomma, si diventa definitivamente dei ricconi, potendo reclutare anche gli altri personaggi del gioco per missioni in comune o semplicemente per andare a fare baldoria nei locali.

Alla conclusione della missione principale, viene rialsciato al giocatore una specie di profilo psichiatrico, a firma dallo psicoterapeuta di Michael.

Fine della trama.

Considerazioni personali:
Considero questo uno dei più bei videogames che abbia mai giocato. Mi sono divertito tantissimo e anche appassionato. La trama è coinvolgente e come ho cercato di dimostrare assai elaborata ed intrecciata.
Il gioco in se è tecnicamente davvero ben fatto. Qualcuno si è lamentato che le missioni siano sensibilmente inferiori rispetto ai capitoli precedenti ed in effetti numeri alla mano è così, ma la loro articolazione è molto più strutturata a mio avviso e comunque tutte le misisoni secondarie, gli eventi casuali e gli items da raccogliere in giro per la mappa per completare alcune quest specifiche dei singoli protagonisti, ne fanno un titolo dalla ottima longevità. Forse non troppo difficile da giocare come qualcuno sperava.
Ma, ehi, è GTA, un titolo di intrattenimento (soprattutto), non un videogame competitivo. E secondo me la sua capacità di intrattenere è a dir poco sorprendente.

mercoledì 26 novembre 2014

Un'infarinata di funzioni cognitive -parte 2-

L'altra volta ho spiegato a grandi linee cosa sono le funzioni cognitive, quali branche della psicologia le studiano e tramite quali metodi.
Avevo terminato il post accennando a due concetti essenziali quando si parla di neuroscienze: il vicariamento e la plasticità cerebrale.
Parto però dall'ultima, perché, diciamo, è propedeutica all'altra.
Per plasticità cerebrale s'intende la capacità della strutture cerebrali di riorganizzarsi a seguito di un evento che ha mutato e perturbato il normale funzionamento del sistema.
Quando il nostro cervello si sviluppa, nell'infanzia, le varie strutture cerebrali si organizzano e si specializzano secondo un codice prefissato scritto nei nostri geni. Se nulla perturba questo processo, il cervello nell'adulto si formerà secondo la classica distribuzione in aree e circuiti.
La specializzazione delle varie aree cerebrali tuttavia, non viene determinata solo dal codice genetico, ma anche dalla necessaria stimolazione da parte dell'ambiente esterno. Quindi, per esempio, le aree della corteccia visiva primaria si sviluppano correttamente se non vi sono anomalie genetiche ma anche se l'individuo può accedere alla normale stimolazione visiva da parte dell'ambiente circostante. Lo stesso vale per le aree uditive, per quelle somatosensoriali, le olfattive... quelle dedicate al linguaggio... tutte, in pratica. Ma cosa succede se durante questo sviluppo capita un evento che ne impedisce la normale evoluzione?
In letteratura si possono trovare numerosi esempi di esperimenti fatti in anni passati sugli animali abbastanza cruenti, che proprio per via della loro durezza e della mutata sensibilità comune circa l'impiego di animali per esperimenti di laboratorio tralascerò. Diciamo, rimanendo sul generico, che non avendo possibilità all'epoca di intervenire sul patrimonio genetico con la selettività di oggi, ci si è basati su prove di deprivazione sensoriale. Si è visto che se io impedisco ad un determinata area di usufruire di una corretta stimolazione durante il suo sviluppo, la sua specializzazione e il suo funzionamento ne risulteranno alla fine alterati.
Un esempio più politically correct lo si può fare proprio con il linguaggio e senza scomodare studi dai complicati assunti metodologici. Basta citare i casi dei "figli della foresta" o, per bussare alle porte della letteratura, il Mowgli de Il Libro della Giungla di Rudyard Kipling. Sono esempi di deprivazione sensoriale in ambito etologico. Non c'è nessun intervento da parte di nessuno sperimentatore, semplicemente si osserva che nei casi in cui gli individui siano privati della normale stimolazione linguistica, questi non saranno in grado di sviluppare sufficientemente le strutture dedicate a questa funzione e non è solo una questione di lingua che si parla. Se determinate strutture fonetiche non si acquisiscono entro una certa età, il cervello non sarà più in grado di svilupparle con la stessa efficienza. Questo perché la plasticità cerebrale ha dei limiti e, soprattutto, tali limiti si fanno più stringenti all'aumentare dell'età dell'indivuduo.
Non è solo una questione che da giovani si reagisce meglio, anzi, non è per niente questo genere di questione. E' invece perché più il cervello è indifferenziato, non specializzato e non del tutto sviluppato, più è plastico. Quando si nasce di strutture cerebrali già specializzate ce ne sono poche, pochissime anzi. Quindi ogni area è ancora tutta da determinare, rifinire, da plasmare: c'è spazio per tantissimi cambiamenti e variabili possibili.
In età adulta invece, quando le aree sono ormai stabilmente dedicate a sottendere una determinata funzione, sarà più difficile se non impossibile che un'area abbandoni la sua funzione primaria per sottenderne un'altra.
Ed entrambe le situazioni hanno vantaggi e svantaggi.

Un cervello giovanissimo e quindi molto plastico sarà in grado di riorganizzarsi a volte in maniera da non lasciare traccia dell'accaduto, anche in seguito ad un evento estremamente traumatico. Sono riportati in letteratura tristi casi di neonati a cui, per l'insorgere di una neoplasia o per un difetto genetico, è stato asportato un intero emisfero cerebrale o sono addirittura nati senza. Tuttavia, lo sviluppo intellettivo e cognitivo col passare degli anni è avvenuto in modo soprendentemente normale. D'altro canto un cervello molto plastico sarà anche un cervello più facilmente perturbabile. Se per esempio ne viene alterato il metabolismo cellulare da sostanze tossiche o nei casi di forte deprivazione sensoriale. In questi casi lo sviluppo non potrà seguire il normale iter e ne risulterà un'organizzazione diversa da quella considerata "normale".

Un cervello adulto, formato e specializzato, al contrario, sarà da un parte meno sensibile alla deprivazione sensoriale ma sarà anche meno (moooolto meno) in grado di riorganizzarsi a seguito di un danno cerebrale, proprio per via della sua definitiva "compartimentazione". Seppure una certa parte di plasticità viene conservata anche in età adulta.

E qui si può incominciare ad introdurre il secondo concetto, il vicariamento.
Per vicariamento s'intende la capacità di una determinata area sana di supplire in toto o in parte alla funzione sottesa in origine da un'altra area cerebrale che è stata improvvisamente lesa. L'esempio più classico è quello di un evento vascolare in seguito al quale una determinata area è stata disattivata. Se le funzionalità di quell'area non possono più essere ripristinate, le aree circostanti possono riorganizzarsi per tentare di ristabilire almeno in parte la funzione persa, e questo può avvenire in maniera spontanea entro una certa misura ma più efficacemente in seguito ad un trattamento riabilitativo che mira a stimolare continuamente questa riorganizzazione.
E' a questo punto evidente che la conoscenza dei circuiti neuronali è fondamentale a questo scopo, perché se so quali aree sono interconnesse tra loro per sottendere ad una certa funzione, potrò verificare quali parti di questo circuito sono preservate e quindi concentrarmi, durante la riabilitazione, sulla stimolazione di quelle. E qui bisogna evidenziare un'altra differenza fondamentale tra un cervello estremamente giovane e quello di un adulto.
In un cervello infantile, non già specializzato e segregato nelle sue compartimentazioni funzionali, a seguito di un danno, una determinata funzione potrà essere vicariata anche da aree "territorialmente" molto distanti da quella in origine designata geneticamente. Dicevamo sopra di bimbi privati di un emisfero emisfero cerebrale. Sono noti casi in cui l'emisfero perso era il sinistro e i soggetti sono diventati destrimani, in cui quindi i centri del linguaggio si sarebbero con altissima probabilità specializzati nell'emisfero venuto a mancare (non scendo in ulteriori particolari, basti sapere che è così che avviene nel quasi 100% dei destrimani), che tuttavia sono riusciti a sviluppare una funzione linguistica del tutto normale. Questo perché quando la plasticità è alta anche le possibilità di vicariamento lo sono e, nel caso sopracitato, le strutture si sono riorganizzate "spostando" lo sviluppo delle aree linguistiche nell'unico emisfero disponibile.
Al contrario, in un soggetto adulto, solo aree territorialmente vicine e già interconesse potranno vicariare la funzione persa e comunque, quasi sempre, solo in parte. Però, se il danno non è troppo esteso, la parte recuperata potrà comunque ridare al soggetto una soddisfaceente padronanza e restituirgli la sua autonomia.
Quindi, il vicariamento, se le aree interconnesse con quella danneggiata rimangono sane, è sempre possibile? No, purtroppo. Determinate funzioni, particolarmente complesse, se vengono perse non possono essere riabilitate nel senso più stretto del termine, che intende come restituirle al paziente. In questo casi si può solo insegnare al paziente come compensare la funzione persa mettendo in atto strategie di aggiramento del deficit.
L'esempio più classico che si fa in Neuropsicologia è la perdita della memoria a lungo termine. Questa funzione, se persa, non può essere riabilitata. Quel che si può fare è addestrare il paziente ad utilizzare supporti fisici (calendari, agende elettroniche, dispenser a tempo per le medicine da prendere, ecc...) che, in qualche modo ed azzardando un po', "ricordino" per lui.
Oh, sia chiaro, il termine addestrare è utilizzato comunemente in riabilitazione e non ha nessun significato dispregiativo. Fa riferimento alle tecniche di insegnamento che cercano di fare apprendere al soggetto determinate procedure in modo da attuarle poi nella maniera più automatica possibile quando si troverà reinserito nella quotidianità. Questo perché una procedura appresa ed automatizzata sarà molto più semplice da mettere in pratica di una che tutte le volte va pensata e pianificata.
Bene, direi di terminare qui la seconda parte riguardante questa specie di introduzione alle Neuroscienze. Nell'ultima, che tratterò nel prossimo post, direi di parlare nella maniera più semplice possibile dello sviluppo cerebrale e di come e dove determinate funzioni si situano in determinati distretti cerebrali.

lunedì 24 novembre 2014

Videogames - Battlefield 3


Io, beh, considero questo il più divertente FPS non arena uscito in commercio negli ultimi anni. Tra parentesi anche uno dei più difficili, oltre che completi.
Il comparto on line-multiplayer è quello principale, mentre la campagna in single player è francamente trascurabile. Come buona parte dei giochi dello stesso tipo infatti, nasce soprattutto per sfidarsi con altri giocatori.
L'idea di Battlefield viene sviluppata dalla Dice e pubblicata da Electronics Arts nel mare magnum degli fps con quattro capitoli principali (proprio l'anno scorso è uscito l'ultimo: Battlefield 4; in questo post ho preferito parlare del capitolo precedente perché è forse meglio riuscito), più qualche spin off, come i Battlefield Bad Company 1 e 2, e l'ultimo Battlefield Hardline. Direi che l'idea iniziale dei programmatori era quella di a creare una saga che fosse piuttosto aderente ad un "simulatore" realistico e dalla forte connotazione strategica di un campo di battaglia, in sostanziale differenza con il sempre vendutissimo Call of Duty che è sempre stato invece più orientato, a mio avviso, a scimmiottare gli fps arena. In pratica in Battlefield, nella modalità più classica Conquista si confrontano due schieramenti che si contendono punti di controllo fissi (bandiere) all'interno di un campo di battaglia molto grande (a volte pure troppo se ci sono pochi giocatori collegati),  impersonando classi diverse di soldato con ruoli diversi e diversi compiti e potendo utilizzare mezzi come arei, elicotteri, carri armati e jeep.
Questo in teoria, almeno. Di fatti, se una squadra si muove con una buona coordinazione e i ruoli sono ben distribuiti tra i giocatori, le probabilità di vincere sicuramente aumentano. Per altro anche i singoli giocatori vengono premiati se si comportanto in maniera coordinata con i compagni di squadra, perché quando si catturano bandiere (i punti di controllo di cui dicevo sopra) o si aiutano gli altri giocatori, si fanno punti. Diverse volte mi è capitato di essere stato il miglior giocatore della partita, pur avendo ucciso pochi nemici.
Quindi, in questo senso si avvicina abbastanza ad un simulatore di guerra, perché lo scontro tra i giocatori non è incentivato all'estremo, seppur uccidendo avversari ovviamente si fanno punti e si aumenta di livello, ma lo scopo principale è quello di controllare un territorio.
Poi ovviamente la priorità in una sfida può cambiare dalla modalità che si sta giocando.
Le peculiarità di Battlefield rispetto, per esempio, a Call of Duty o ad altri FPS "tipo Arena", sono le mappe di gioco molto grandi, la possibilità di utilizzare i mezzi, la distruttività dell'ambiente circostante, creando così nuovi passaggi e nascondigli o facendo crollare strutture addosse agli avversari e, cosa che ancora non ho nominato, l'introduzione di una variabile in più per il giocatore: la balistica. I proiettili, proprio come nella realtà, hanno un certo tempo di percorrenza per coprire una certa distanza che va calcolato. Così come all'umentare della distanza il proiettile inizierà a subire la forza di gravità esaurendo la spinta e quindi a scendere verso terra, e anche questo aspetto va tenuto in considerazione.
Per esempio, se io sono un cecchino e voglio sparare ad un nemico in distanza e che si sta muovendo, per colpirlo dovrò calcolare di quanto dovrò spostare la mira più in alto e più in avanti rispetto al bersaglio. Inoltre ogni arma ha caratteristiche diverse, per cui evidenzierà balistiche diverse. Bisogna a mio avviso avere mira nel senso più realistico della parola. Realistico se comparato ad un videogames, ovviamente

Le modalilità pincipali di gioco (ce ne sono altre, ma francamente mi sembrano più secondarie rispetto a queste):
Conquista
Come dicevo sopra, in conquista due squadre avversarie si sfidano per il controllo di un territorio. Si inizia "nascendo" ai capi opposti della mappa, nel proprio schieramento di appartenenza. In Battlefield 3 gli schieramenti sono sempre USA vs Russia. L'obiettivo di entrambe le squadre è quello di conquistare le bandiere (i punti di controllo), che in genere sono 4 o 5, occupandole e difendendole dagli assalti degli avversari.
Le due squadre cominciano la partita con un "monte punti" (tickets) uguale che andrà a scendere man mano che gli avversari conquistano bandiere: se gli avversari non controllano nessuna bandiera i punti non scendono, se ne controllano una scendono piano, se ne controllano molte scendono velocemente. Perde la squadra che per prima esurisce tutto il monte punti a disposizione.
E' una modalità di gioco piuttosto lunga, che può durare anche 1 ora o più se le due squadre si equivalgono in abilità.

Corsa
In questa modalità, le due squadre non ricoprono lo stesso ruolo, come in conquista, ma si dividono in squadra attaccante e squadra difensore. Non ci saranno bandiere da catturare ma 3 bombe pre piazzate da innescare e far esplodere dagli attaccanti e viceversa difendere e disinnescare da parte dei difensori. Gli attaccanti hanno un monte punti che scende man mano che il tempo passa; vincono gli attaccanti se riescono a far esplodere tutti e tre gli obiettivi prima di avere esaurito i punti o vincono i difensori se riescono a difendere gli obiettivi finché gli attaccanti non hanno esaurito tutti i punti a disposizione.

Death Match a Squadre
Due squadre si fronteggiano su una mappa grande quanto quelle della modalità conquista, ma l'obiettivo non sarà più quello di conquistare il territorio, quanto di uccidere il numero prefissato di nemici prima della squadra avversaria. Anche in questa modalità sono disponibili i mezzi.

Death Match a Fazioni
Come nella modalità precedente, anche in questa lo scopo principale è quello di uccidere il numero prefissato di nemici prima della squadra avversaria, ma con la differenza che non sono più disponibili i mezzi e che il combattimento si svolge su una mappa sensibilmente più piccola.
In verità le mappe sono sempre le stesse, ma lo spazio in cui si confrontano i giocatori è stato ritagliato e ristretto ad un'area circoscritta della mappa.
Questa è la modalità che più si avvicina agli FPS in stile Call of Duty. Gli spazi ristretti aumentano le occasioni di contatto tra i giocatori e la frenesia di gioco. Più che la strategia, contano buoni riflessi, il saper usare le diverse armi e un'ottima connessione. Questo perché se la connessione non è buona, a parte laggare e quindi trovarsi a mirare dove già l'avversario non c'è più, alcune delle nostre premute di grilletto sul pad non verranno tradotte in colpi effettivi dell'arma nel gioco. Quindi ci potremmo trovare o ad effettuare lo sparo vero e proprio nel gioco in ritardo rispetto alla pigiata del tasto oppure a non vedere nemmeno partire i colpi dalla nostra arma. In una modalità dove in genere il primo che inizia a sparare è quello che vince il duello, proprio per via degli spazi stretti e della frenesia di gioco, si capisce bene che se i nostri colpi vengono tradotti con ritardo di anche solo 1/4 di secondo siamo quasi sempre belli che fottuti. In teoria questo effetto è mitigato dal fatto che Electronics Arts ha server fisici dedicati alle partite on line, ma le connessioni italiane sono così scandalose che purtroppo in determinati momenti della giornata, quando le celle sono inflazionate, è praticamente impossibile giocare decentemente. Ma non è un problema solo di Battlefield eh, è un problema dell'80% dei giocatori italiani con qualunque gioco che abbia un comparto on line multiplayer.

Classi giocatore:
Come dicevo, esistono diversi ruoli che si possono impersonificare durante una partita:
Assalto
E' il medico. Oltre ad avere, come tutti gli altri, a disposizione un'arma principale (fucile d'assalto) e una secondaria da fianco (pistola), avrà anche a disposizione i kit medici da lanciare ai compagni di gioco feriti e i defibrillatori per rianimare i compagni caduti (entro un limite di tempo). Rianimare un compagno caduto con il defibrillatore darà gli stessi punti di una kill, perché per rianimare bisogna esporsi in una zona dove gli avversari stanno probabilmente già sparando.

Geniere
E' il ruolo che in molti prediligono. A parte un'arma principale, in genere una carabina, tra cui lo SCAR-H, forse il fucile a ripetizione più forte del gioco se lo si sa usare, come secondaria ha una pistola ma porta anche sempre un lanciarazzi da spalla: RPG o SMAW, cioé il classico bazooka, che lascia proiettili dal forte impatto ma che non sono teleguidabili; lo Stinger o Igla che, una volta agganciato il bersaglio, lancia proiettili a ricerca termica che vanno quasi sempre a bersaglio, ma che infliggono la metà del danno di un RPG e che possono essere lanciati solo verso aerei ed elicotteri, proprio perché i proiettili seguiranno il calore emesso dai motori; infine il Javelin, un bazookone molto potente che è però in grado di agganciare come bersaglio solo i mezzi terrestri. Può in verità sparare verso elicotteri ed aerei, ma solo se sono precedentemente stati segnalati da un cecchino tramite il Soflam che ha a disposizione, a scelta, nell'equipaggiamento (dopo, parlando del cecchino, vedremo cos'è).
Inoltre il geniere può disporre di un mezzo riparatore (tipo un saldatore), che può riparare i mezzi danneggiati o danneggiare i mezzi avversari oppure una specie di robottino teleguidato che sarà in grado di riparare e danneggiare i veicoli come il mezzo riparatore, ma guidato a distanza, e di mine anticarro da posizionare in punti strategici della mappa che se ben disposte saranno delle vere e proprie rotture di balle per i mezzi avversari.

Supporto
Ruolo che non scelgono in tanti, anche se dispone di armi principali dal calibro notevole e dai caricatori pressoché infiniti (mitragliatrici leggere), più la classica pistola da fianco. Tuttavia durante le fasi frenetiche di gioco un mitraglione da 200 colpi se da una parte può sembrare rassicurante per la mole di munizioni che porta, dall'altro si rivelerà inevitabilmente ingombrante e poco agile da utilizzare. Ma è innegabile chi ci si impratichisce fa vere e proprie stragi anche nei death match a fazioni, perché può sfruttare i tempi morti necessari agli avversari per ricaricare la proprio arma. Chi non ha mai odiato il classico portatore di PKP Pecheneg giocando a death match a fazioni su Canali di Noshar? Tuttavia il problema si pone quando sarà il nostro personaggio a dover ricaricare, perché le mitragliatrici leggere hanno un tempo di ricarica (posizionare il caricatore, estrarre il nastro munizioni, aggacciarlo nell'alloggiatura apposita e chiudere lo sportellino ferma munizioni) moooolto lungo.
Tra le dotazioni secondarie, ha a disposizione i kit di rifornimento munizioni da lanciare ai compagni + a scelta o il C4 o la mina ad inciampo Claymore o il mortaio o, infine, la balestra.

Cecchino o Scout
Croce e delizia di tanti giocatori. Il cecchino è la classe più di difficile da utilizzare (sempre che non si stia camperati su un traliccio a sparare in distanza agli avversari per tutta la partita, cosa comunque a mio avviso ammisibilissima, perché, nella realtà, quello fanno i cecchini). E' la più difficile perché è l'unica classe che non dispone di un'arma principale che spara a raffica (a meno di utilizzare furbescamente quella da difesa personale). Inoltre tutti i fucili da cecchino non uccidono quasi mai con un colpo solo, a meno di prendere l'avversario in testa o nella parte superiore del busto o che questi sia già stato ferito. Quindi l'abilità sarà quella di riuscire a colpire da subito l'avversario proprio in testa e assicuro che non è facile per un cazzo, specialmente nelle brevi distanze in cui il tempo per mirare è assai poco. Ma anche sparare in lunga distanza non è un affare di poco conto, perché per prendere dimestichezza con la balistica dell'arma ci vuole tempo, anche per prendere l'occhio su quale tacca del mirino tenere a riferimento a seconda della distanza dal bersaglio. La cosa è così poco banale che quando si effettua un headshot, oltre ai 100 punti classici per l'uccisione del nemico, al colpo alla testa andato a buon segno verrano aggiunti 10 punti di bonus per la precisione + tanti punti quanti sono i metri di distanza coperti dal tiro. Quindi, se colpiamo alla testa un nemico che sta a 1000m da noi, il punteggio dell'uccisione sarà 100 per la kill + 10 per l'headshot + 1000 come bonus tiratore scelto. Cosa succede invece se si colpisce alla testa un nemico a bruciapelo durante uno scontro ravvicinato? Beh, se il nemico è a zero metri da noi quando lo colpiamo alla testa, i punti bonus oltre alla kill saranno solo i 10 per l'headshot. Comunque si viene sempre premiati, proprio per via della difficoltà del gesto.

Oltre al fucile da cecchino (bolt action o automatico), lo scout ha a diposizione la pistola, più una serie di aggeggi: il segnalatore di rientro, che crea un punto di spawn all'interno della mappa in una zona decisa dal giocatore ed utilizzabile anche dai compagni di squadra;  il Mav, un drone teleguidato volante che serve per spottare i nemici e per disattivare i loro segnalatori di rientro; il Soflam che è una specie di scatoletta che si poggia a terra e può spottare i velivoli avversari che possono così essere colpiti dai genieri con il Javelin, bazookone che spara un proiettile a ricerca estremamente efficace; infine, il T-UGS: una piccola antennina, poco visibile agli avversari, che emette un segnale sonoro udibile da tutti gli alleati nelle vicinanze quando un nemico passa all'interno del suo raggio di detezione.

Tutte le classi sopra citate dispongono di un coltello per il corpo a corpo.

Battlefield 3 non è naturalmente esente da difetti. Il principale, e non è affare da poco, è che non è ben ottimizzato. A parte i cali di frame rate, all'interno della mappe esistono glitch grafici abbastanza grossolani che francamente sono quasi inammissibili per un titolo di questa portata. Glitch che sono diventati ormai famosi tra i giocatori, al punto da essere sfruttati durante le partite per nascondercisi dentro e poter così sparare agli avversari senza essere scorti da questi. In molti server questa pratica è punita dagli amministratori con il ban dell'utente colpevole, ma in molti di questi server i controlli non sono poi così capillari. Poi c'è la questione del Netcode, che sarebbe quel sistema che aiuta a livellare un po' le connessioni, da quella americana super veloce a quella, sigh, italiana super lenta. Ora, è vero che i miracoli non li fa nessuno e quasi tutti i giochi multiplayer online per noi italiani sono una mezza sofferenza, ma un gioco come BF3 che ha anche dei server dedicati balla comunque troppo. Per esempio, molti si lamentano del fatto che lo sparattutto più venduto del mondo, Call of Duty, manca di server dedicati, basandosi ancora sul sistema dell'host (in pratica uno dei giocatori che partecipa alla partita funge da server per tutti gli altri). Certo, non è una gran cosa, il sistema dell'host dà un sacco di grane, ma fatto sta che spesso si hanno più problemi di lag su Battlefield che su Cod. Quante volte, a me che piace usare il cecchino, succede di sparare alla testa ad un avversario prima che inizi a spararmi lui, ma io muoio e lui non subisce nemmeno un hitmarker. Io non son un fenomeno con il cecchino e spesso mi accorgo prima ancora di avere la risposta nel gioco che nella fretta ho premuto il grilletto ma non ho mirato bene, però appunto so quando ho mirato bene e quando no. Addirittura qualche volta capita che un avversario mi uccida quando nella mia visuale di gioco non ha nemmeno iniziato a mirarmi. Dove sta a quel punto la sfida di abilità tra giocatori? Se io vedo così in ritardo ciò che accade nel gioco da non visualizzare nemmeno se un avversario ha iniziato a mirarmi, come potrò mai reagire per togliermi dalla sua traiettoria e contrattaccare?
Poi, parlerei anche della troppa penalizzazione per il giocatore che viene colpito. Mi spiego. Se qualcuno ci sta sparando, già quando un proiettile ci passa vicino, pur senza colpirci (cioè quando siamo sotto soppressione), la visuale di gioco viene disturbata da un effetto appannamento che, già che si è sotto attacco, complica ancor di più la possibilità di reazione. Ma quando un nemico ci sta addirittura colpendo, la visuale inizia anche a sobbalzare eccessivamente e rispondere al fuoco diventa veramente un affare di connessione per lo più, riuscendo ad infilare qualche nostro colpo critico tra i molti suoi, penalizzando troppo le singole abilità di gioco. E' vero, se si è pronti ci si può spostare dalla traiettoria, ma tenendo sempre come esempio il cecchino, se io sto già mirando e devo mettere a segno il secondo colpo per uccidere il mio avversario, se lui mi sta sparando con un fucile a ripetizione le possibilità che io lo possa colpire in tutto quello sfarfallìo sono davvero ridotte al lumicino. Per questo spesso ci si sposta dalla traiettoria e si switcha sulla pistola, che potendo sparare a ripetizione spesso ci toglie d'impaccio. Ma uccidendo l'avversario con la pistola, si perdono i punti per sbloccare gli altri accessori del fucile principale o per sbloccare un'arma bonus durante le assegnazioni (tipo L96 per esempio, che tra parentresi io non ho ancora sbloccato perché non ho nessuno con cui fare le missioni co-op).
Insomma, i difetti non mancano, ma il gioco è così divertente e il concetto di fondo è così valido che ci si può comunque passare sopra, dopo tutto. Certo con tutte le patch che hanno rilasciato da quando Battlefield 3 è uscito (2011), un po' stupisce che certi errori grossolani di grafica non siano riusciti a sistemarli, ma d'altronde capisco che un gioco del genere deve gestire una mole di elementi impressionante tra tutte le armi esistenti e le loro diverse caratteristiche che mutano a seconda degli accessori, i mezzi, i molti giocatori, la distruttività dell'ambiente, ecc... Si spera, tuttavia, che nel "futuro" Battlefield 5 siano un po' più attenti a certi dettagli che poi tanto dettagli non sono, perché anche con l'uscita del 4 i problemi per i giocatori non sono mancati.
E visto che ho parlato molto del cecchino, proprio perché è la classe che preferisco, termino il post con due video. Uno in cui il cecchino fa il vero cecchino, ovvero appostato in distanza sfruttando le affinate abilità di mira e di balistica, e uno in cui il giocatore impersonifica il cosiddetto agressive recon, un modo spettacolare e assai difficile di interpretare questa classe, che conta sui riflessi rapidi e una mira altrettanto rapida ed intuitiva. Secondo me è molto azzeccata la frase detta da uno youtuber molto seguito e vero asso ad interpretare la classe del cecchino in questo modo aggressivo, che affermava che mentre per tutti gli altri giocatori il livello di vita massimo è il 100%, un aggressive recon può ambire, se ha i riflessi pronti, a non più di un 60-70%. Perché gli avversari che usano armi automatiche sono così avvantaggiati che qualche colpo ci arriva sempre addosso.

 

 

giovedì 20 novembre 2014

Un'infarinata di funzioni cognitive -parte 1-

In questi ultimi tempi, mi sono ritrovato per necessità a dover un po' rispolverare le mie vecchie conoscenze universitarie.
Io sono laureato in Neuropsicologia e, dopo la Laurea, ho partecipato ad uno studio poi pubblicato sulla rivista scientifica Stroke riguardante la riabilitazione di un disturbo cognitivo chiamato Eminegligenza Spaziale Unilaterale, o per gli amici Neglect (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/19246708).
Senza entrare nello specifico di questo disturbo che è anche un po' complicato sia da spiegare che da comprendere, se non si ha dimestichezza con almeno le basi della Neuropsicologia e della Psicologia dei Processi Cognitivi (e non è certo mio intento tenere una lezione via blog), avrei semplicemente piacere di far conoscere in maniera assolutamente generica e divulgativa questa branca del sapere umano, perché ritengo che apprendere un po' come funziona quella roba molliccia che sta in mezzo alle ossa della nostra testa potrebbe essere una buona cosa anche per un lettore medio. O quantomeno affascinante. Chiariamo: non intendo creare una specie di vademecum per l'autodiagnosi, né trattare gli argomenti in maniera approfondita e rigorosa come fosse una lezione all'università. Lo ripeto: è solo divulgazione, quindi non adoperate alcuno di questi post né per verificare il vostro buon funzionamento cognitivo, né tantomeno per valutare quello degli altri. Quello che andrò a proporre è solo un'infarinatura e non è assolutamente sufficiente a fare niente che non sia acculturarsi un po' rispetto a cose che non si conoscevano. Un po' come guardare una puntata de La Storia dell'Universo su Focus Tv. Non è che dopo aver visto la puntata siete diventati improvvisamente astronomi.

Occhei, stabilito questo, partiamo dalle basi: che cos'è la Psicologia Cognitiva?
La Psicologia Cognitiva è quella branca della psicologia che studia il funzionamento dei processi cognitivi (linguaggio, memoria, attenzione, ecc..) attraverso lo studio dei soggetti sani quando si cimentano in test specifici che valutano i parametri delle varie funzioni sia prese singolarmente che nelle loro interazioni. Per esempio, se la maggior parte di un certo numero di soggetti presi a campione a cui viene chiesto di memorizzare una sequenza numerica casuale è in grado di ricordare in media n elementi di quella sequenza, allora posso concludere che la capacità media di un soggetto sano di ricordare una sequenza vista solo una volta è di n elementi. Troppo oscuro? Riprovo... prendiamo 100 persone. Ad ognuna di queste 100 persone leggo una sequenza casuale di numeri e poi chiedo loro di ripeterla subito. Per ogni soggetto inizio con una sequenza di 2 elementi, poi di 3, poi di 4, poi di 5, poi di 6, ecc... e mi fermo quando il soggetto non riesce più a ricordare correttamente tutti gli elementi di una sequenza, e dico, per esempio: il soggetto X ricorda correttamente sequenze fino a 6 elementi. Poi proseguo nello stesso modo con gli altri soggetti e alla fine scopro che: il soggetto Y arriva a 7, il soggetto Z a 5, il soggetto Q a 9, ecc... Ricavate le misure per tutti i soggetti faccio la media e dico che la capacità media dei soggetti di memorizzare una sequenza di items numerici nel breve termine è pari al valore medio che ho misurato nel mio esperimento (con un margine di tolleranza di circa due elementi in cui si rientra comunque nella normalità). Naturalmente non è così semplice, la procedura è molto più complessa perché bisogna tenere in considerazione molti fattori, ma come dicevo è solo per fare un esempio.
Al che uno potrebbe dire: beh, si, embé? A che serve scoprire che un soggetto sano riesce a ricordare circa tra i 5 e i 9 elementi di una sequenza numerica? Serve, serve eccome. Perché mi da un parametro di confronto. Mi da il termine di paragone del funzionamento normale di quella funzione cognitiva, che quindi mi servirà per verificare se a seguito di un danno quella funzione è preservata o no. Semplifico: se so che il range mnemonico normale è tra i 5 e i 9 elementi di una sequenza, posso dire che se un paziente ne ricorda solo 4 o addirittura meno, la sua capacità di memoria a breve termine si pone al di sotto della normalità e quindi li ci sarà probabilmente qualcosa che non funziona più tanto bene che vale la pena indagare più approfonditamente.
Lo stesso metodo si applica per tutte le altre funzioni cognitive, utilizzando sempre un approccio scientifico che rende i risultati delle misurazioni affidabili, perché statisticamente validi, metodologicamente probanti e soprattutto replicabili.

Detto della Psicologia Cognitiva, cos'è invece la Neuropsicologia?
La Neuropsicologia così come la Psicologia Cognitiva si prefigge di studiare il funzionamento dei processi cognitivi e delle strutture neuronali che li sottendono. Ma anziché misurarli nei soggetti sani, ne osserva i malfunzionamenti nei soggetti colpiti da danno cerebrale. I Neuropsicologi sono quindi degli scienziati pazzi, senza cuore e compassione, che approfittano delle disgrazie altrui per portare avanti le loro speculazioni? Certo che no. Non tutti almeno... :-D.
Semplicemente, questa metodologia d'indagine permette di concludere che, se io osservo che pazienti che hanno subito un danno alla stessa area cerebrale mostrano tutti la perdita della stessa funzione, significa che quell'area con un'altissima probabilità sottenderà proprio a quella funzione. E grazie ar caz.... verrebbe da dire, no? Beh, no. Cioé, un po' si. Ma la conlcusione, se può sembrare banale da un punto di vista sillogistico, non lo è per niente per le implicazioni pratiche che porta con se e le prospettive di intervento che apre.
Perché attraverso queste osservazioni posso mappare il cervello in zone e circuiti, ognuno dei quali so fare capo a una determinata funzione cognitiva e il tutto con una precisione affidabile. Per cui posso arrivare a dire, con una certa precisione, che una determinata funzione viene svolta dalle strutture presenti proprio in quell'area, tanto che tutte le volte che queste strutture vengono danneggiate verrà sistematicamente compromessa sempre quella funzione. E questo è un grande vantaggio, anche in termini riabilitativi. Perché se so che per una determinata funzione partecipano zone diverse che sottendono ad aspetti diversi della stessa, qualora una di queste aree venga lesa potrò provare a sfruttare le altre per vicariare almeno in parte il ruolo che veniva svolto da quella ormai danneggiata.
E qui, si apre il secondo ed altrettanto importante capitolo della Neurospicologia: la riabilitazione. La Neuropsicologia si occupa infatti non solo di studiare quali funzioni si perdono in seguito a determinati danni strutturali, ma di sperimentare metodi per riabilitare in toto o in parte le funzioni perse in seguito a danno cerebrale e lo fa basandosi su due principi: la capacità di vicarimento da parte delle aree circostanti ed interconnesse a quella danneggiata e la plasticità cerebrale. Sono due concetti sensibilmente diversi ma funzionalmente adiacenti. Nel prossimo post dedicato a questi argomenti tenterò di spiegare a cosa fanno riferimento.

mercoledì 19 novembre 2014

Videogames - Perché a crescere si fa sempre in tempo

No, battute a parte.
E' un luogo comune, come ce ne sono tanti su tante altre tematiche. E' un luogo comune che francamente fino a qualche anno fa professavo anche io.
I videogiochi sono dedicati ad un pubblico giovane o addirittura giovanissimo: è questo il luogo comune. E non è che non sia vero del tutto. Sicuramente una mole significativa di videogiochi è dedicata a quel tipo di intrattenimento assolutamente spensierato e disimpegnato che in genere è fruito dalle categorie più giovani di "consumatori" di questi prodotti. Ma anche questo genere di giochi conquista sempre più spesso una fetta di pubblico più adulto, perché a tutti può andar bene passare quella mezzoretta a cazzeggiare per staccare un po' la spina. E mi ci metto tranquillamente anche io tra questi.
Ora, l'altro luogo comune è che i videogiochi siano un passatempo poco sano o addirittura deleterio. E anche questa considerazione non è del tutto falsa: stare tutti i pomeriggi col culo sul divano a giocare alla Play non è sano, c'è poco da fare. Ma come per tutte le cose, anche i videogames se utilizzati nella giusta misura sono una forma di intrattenimento come qualsiasi altra. Un intrattenimento che non è intrinsecamente "sbagliato", bisogna non abusarne.
Un adulto allora sarà probabilmente più in grado di limitarsi, ma per un adolescente ci vuole un regola stabilita. Tipo un'ora e mezza al massimo due al giorno, dopodiché si spegne e si fa altro. Stabilità la regola, se rispettata, nessun videogioco fa male, anche se, ovviamente, bisogna rispettare le indicazioni relative all'età consigliata: il così detto PEGI (Pan European Games Information).
Per esempio, in questi anni s'è fatto un gran parlare di GTA (Grand Theft Auto) sviluppato da RockStar Games. Io ho giocato e finito l'ultimo capitolo uscito, GTA V e con tutta sincerità devo dire che è un titolo straordinario (titolo che per altro ha battuto moltissimi record di vendite). Immaginate un mix di Tarantino e Spike Lee trasportato in un videogioco. Ironico, macabro, intelligente, con una trama davvero ben fatta e dialoghi migliori di buona parte dei film che escono periodicamente al cinema. E non parlo solo di cinepanettoni, eh.
Inoltre, è un'opera di ingegneria informatica straordinaria. Sfruttando al massimo le ormai limitate possibilità delle console di vecchia generazione (PS3 e XBOX 360) sono riusciti a partorire un titolo che riesce a gestire una mappa enorme (immaginate che per andare da un capo all'altro di tale mappa, circumnavigandola in macchina, vi vogliono quasi 10 minuti), tantissimi personaggi, eventi casuali, veicoli diversi con caratteristiche diverse e diverse personalizzazioni, missioni principali e secondarie, giochi all'interno del gioco (tennis, golf, freccette, triathlon, gare di auto, gare in MTB, gare in motoscafo e acquascooter, paracadutismo, caccia, scuola di volo, cinema in cui potersi sedere e guardare cortometraggi di circa 15 min tra i quali almeno un paio a mio avviso davvero notevoli, ecc..) e in più la AI della polizia, efficiente come mai negli altri capitoli. C'è poco da fare, è un gran prodotto. Ma come un film di Tarantino o di Spike Lee, è un tipo di intrattenimento dedicato ad un pubblico adulto e sulla confezione c'è ben scritto. Se un bimbo di 10 anni vedesse Le Iene o La 25° Ora si troverebbe davanti ad uno spettacolo certamente non adatto alla sua età, ma mica Tarantino o Spike Lee hanno colpe. Loro fanno i loro film, le istituzioni dedicate a farlo decidono a quali età consentirne la visione e bòna. Così è per i video giochi. Se un genitore permette la visione di un determinato film adatto ad un pubblico adulto a suo figlio, la colpa non è di chi ha fatto il film... o no? Se un genitore compra GTA V al figlio dodicenne, quando sulla confezione c'è scritto PEGI 18, la colpa è di chi ha fatto il gioco? Ci sono tantissimi titoli che possono essere giocati dai ragazzini senza pericolo, i giochi esclusivamente dedicati agli adulti non sono tantissimi, basta evitare quelli.
Ma torniamo all'argomento principale: la qualità che l'intrattenimento videoludico può offrire.
Come dicevo, secondo me bisogna fare due grandi distinguo: i giochi tanto per passare il tempo e i giochi "impegnati", con una trama complicata, che richiedono l'uso di buone doti strategiche e di tempo e impegno per scioglierne i nodi.

Nel primo gruppo ci farei rientrare tutti i giochi dedicati allo sport, gli FPS (First Person Shooter - sparatutto in prima persona, tipo Battlefield e Call Of Duty) tanto in voga in questi anni e buona parte dei simulatori, ma anche tanti giochi platform (Super Mario, Sonic, ecc...), gli arcade, i manageriali e gli strategici. Giochi che hanno un tempo base per partita di circa 10-15/30 minuti eventualmente replicabili decidendo di giocare un'altra partita, tenendo presente che ogni partita seguente non è direttamente influenzata o conseguente dalla precedente. Insomma, non c'è un vero e proprio filone principale da seguire o se c'è è molto spezzettato e adatto ad essere consumato in piccole parti (i cosiddetti "livelli"). In questi giochi, insomma, ogni partita fa un po' storia a sé.

Nel secondo gruppo, invece, ci farei rientrare quei giochi che sono impiantati su di una trama principale e che si sviluppano conseguentemente allo svolgersi della trama stessa. Così come in un film, la concatenazione degli episodi deve essere rispettata affinché la storia possa proseguire e quindi ogni partita sarà propedeutica alla precendente. Inoltre molto spesso questi giochi sono infarciti di enigmi, prove di intelligenza e di destrezza, che il giocatore deve risolvere per poter accedere ad un altro capitolo della trama o per poter usufuire di bonus nascosti nelle mappe. Tra le saghe più interessanti da quest'ultimo punto di vista, a mio avviso, senza andare troppo indietro negli anni, ci metterei quella di God Of War con il "buon" Kratos, i primi 3 Silent hill o il meraviglioso The Secret of Monkey Island (ma qui, in effetti, sono forse andato proprio indietro negli anni).

Poi ci sono giochi che stanno un po' nel mezzo tra i due gruppi, tipo appunto GTA, che in virtù della sua programmazione atta ad offrire al giocatore un'esperienza di gioco il più possibile universale, può essere giocato sia come un gioco del primo gruppo (decidendo di prender parte ad una gara di auto o di fare una partita a tennis o di andare a caccia, ecc...) oppure come un gioco del secondo gruppo, essendo dotato di una trama principale che si sviluppa procedendo di capitolo in capitolo.

Intendiamoci bene, basta leggere il nome che ho deciso di dare a questo blog per capire quanto sia importante per me il vivere il mondo nella sua dimensione più vera, ovvero quella meno inquinata dalla modernità, di cui i videogames sono sicuramente figli. Ma, pur non essendo io un videogiocatore accanito e pur auspicando di poter vivere un giorno in una dimensione il più possibile a contatto con la Natura, per principio mi sento di difendere almeno un po' questo tipo di prodotto, anche perché comunque posso dire di conoscerlo.
Non perché esso ricopra un aspetto fondamentale delle esigenze umane, non perché sia intriso si chissaquali virtù, ma semplicemente perché in questi anni è diventato un po' il capro espiatoio della furbizia di tanti gruppi di potere morale per deviare l'attenzione degli ignoranti da problemi molto più importanti, che sono i veri guai della nostra società. Razzismo, pregiudizio, ignoranza e soprattutto paura, sono le armi per il sensazionalismo che tanto audiens fa in TV.
Francamente ci sono viodegiochi che sono opere, ripeto: non fondamentali o d'arte, che sono comunque degne di nota e rispetto al pari di tanti ottimi film.
Faccio un esempio? Senza scomodare Hideo Kojima, leggendario programmatore e sviluppatore nipponico, autore di alcuni tra i titoli più premiati ed apprezzati di sempre, quelli della saga di Metal Gear, nel 2013 uscì in esclusiva per PlayStation 3 The Last Of Us della Naughty Dog. Ufficialmente un survival horror ambientato in un mondo post apocalittico. E fin qui si potrebbe dire "E vabbé, sai che novità". In realtà un'esperienza di gioco tra le più complesse e profonde che mi sia mai capitato di vedere.
Oltre all'aspetto tecnico e di programmazione, davvero ottimo, il giocatore viene immerso da subito in una trama coinvolgente, che gli chiede in molti passaggi di prendere decisioni complesse, che può attuare solo facendo leva sulla propria etica e morale, che lo faranno emozionare, addolorare, gioire, proprio come in un ottimo film e che poi influiranno sul prosieguo della storia, proprio come fosse lui stesso un personaggio del gioco. Niente immedesimazioni patologiche, sia chiaro, i personaggi hanno una loro personalità definita che non dipende da quella del giocatore, che quindi non si potrà identificare con essi, ma la caratterizzazione degli stessi è così profonda che sarà impossibile non provare empatia per le loro traversie.Proprio come in un ottimo film, lo ripeto.
E perché l'esempio possa risultare comprensibile e verificabile, posto il primo capitolo dell'intero gameplay della storia, tra l'altro effetuato da uno degli Youtuber gamers che più mi fan ridere, il che aiuta un po' a stemperare la tensione. Io il gioco nemmeno ce l'ho, ma quando all'epoca guardai su youtube il primo episodio mi prese tanto come stessi vedendo, lo ripeto ancora, un film appassionante. Tanto che poi ho finito per guardare tutto il walk trought fino all'ultimo episodio. Vediamo se a qualcun altro fa lo stesso effetto.

mercoledì 29 ottobre 2014

Mica che divento cattolico...

Però 'sto Papa, non so se per scelta di "marketing" o perché ci crede veramente, ma sta cominciando a dire qualcosa di veramente rivoluzionario per la Chiesa.
  • Chi siamo noi per giudicare?
  • Si alle unioni civili anche omosessuali
  • La Chiesa deve essere povera (questa la voglio vedere...)
  • Sono comunista come lo è il Vangelo (questa è di oggi)
In fin dei conti, che sia per marketing o per credo personale, poco importa da un punto di vista meramente razionale. La Chiesa è e sarà ancora per molti anni una lobby d'opinione fortissima in Italia e se il capo di questa istituzione così potente porta aiuto alle lotte per i diritti civili, beh, ben venga no?
Ma non mi faccio abbindolare. Si sa che il vero potere ecclesiale non sta tutto nelle mani del Pontefice. Ci sono i Cardinali. Che contano, eccome se contano.
La rinuncia di Benedetto XVI, sostituito da un Papa così diverso nelle opinioni, nel modo di esprimersi e di comportarsi. Persino di vestirsi. Sono i Cardinali che l'hanno scelto del resto, no? Quindi ci sarà stata anche la volontà di cambiare la strategia comunicativa dell'istituzione tutta, giusto? Perché non restino equivoci: strategia di comunicazione = marketing.
Ma torno al punto di partenza, fosse anche per marketing ben venga che la Chiesa cominci ad appoggiare certe battaglie e certe idee. Di certo, visto il potere d'influenza che ha sulla grande mole di persone che cattoliche sono, non può che aiutare.

Ah, tra parentesi, che il Vangelo (inteso come quello che viene identificato dalla CEI come il vangelo ufficiale) fosse di stampo social-comunista io e il mio amico Paolo lo sosteniamo dal lontato 1999. Non cominciamo a fregare, eh.

giovedì 23 ottobre 2014

That's life... (?)

Una volta, parlando di tutt'altro, scrissi in un inciso che la vita non è né bella né brutta, semplicemente ha delle regole entro cui devi stare e che se sai sfruttare poi in genere ne vieni ripagato. Magari non nel modo che ti aspetti o con la "valuta" che ti aspetti, ma in genere ne vieni ripagato.
Già ma, aggiungo ora, forse c'è anche da dire che la sensazione di appagamento può essere soggettiva. Cioé... magari in qualche modo vengo effettivamente ripagato per le mie azioni, ma quel modo chi l'ha detto che sia per me sufficientemente soddisfacente? Mettiamo che io abbia un estremo bisogno di soldi, tanto per fare l'esempio più terra terra, ma il mio modo di comportarmi mi premierà, anziché con la pecunia, con il calore delle gente che mi circonda... sarà sufficiente tale ricompensa a colmare le lacune lasciate dalla mancanza del vil denaro che invece tanto m'abbisognerebbe? La risposta (almeno per me) potrebbe essere "si", se il denaro mi servisse solo per comprare la macchina figa o un nuovo aggeggio tecnologico o permettermi di vivere in una casa con i doppi vetri in tutte le finestre. Ma se quei soldi invece mi abbisognassero per sfamare la mia famiglia? Per conservare un tetto sulla testa? Per permettere alla prole di non sentirsi dissimile da tutti gli altri bambini che incontrerà nei vari contesti tipici dell'infazia (asilo, scuola... & Co.)? Potrei lo stesso sentirmi appagato?
E se all'improvviso tale necessità diventasse definitivamente pressante, da un giorno all'altro, senza preavviso, senza orizzonti? Sarebbe ancora possibile filosofeggiare sui vari modi in cui l'esistenza può ripagarti?
Come si può vedere in questo post ci sono un sacco di domande. Perché non ho risposte. E' un modo per esternarle. Le domande. Chissà che dai che ti ridai qualche risposta non ne venga fuori.

martedì 22 luglio 2014

Perché scrivo della Montagna

Perché...
Già, perché?
Allora... uhm... la storia è un po' lunghetta. E arzigogolata.
Comunque, fatto sta che io non è che sia appassionato di montagna da qualche anno o da un decennio. Io sono appassionato di montagna da sempre. Da quando ho memoria del mondo.
Sono nato in città, come quasi tutti. In una città di mare, per giunta. Vabbé, mare o come lo vogliamo chiamare.
Ma io e il mare non è che siamo mai stati molto amici. Da piccolo ci andavo, trascinato dai genitori. E tutto sommato mi ci sono anche divertito ogni tanto. Come ci si diverte ogni tanto anche quando si esce al Sabato sera con qualcuno che non significa granché per te, ma che tutto sommato per quella volta può pure andare bene, tanto per non stare in casa.
Ma, appunto, come succede con una persona che non ha un gran significato nella tua vita, se per un po' ti perdi di vista non è che ti senti il cuore straziato e lacerato.
No, se per un po' perdi di vista quel qualcuno, potrà venirti in mente ogni tanto onde chiederti: "Boh, chissà se quello/a là è ancora vivo? Bah, forse si, sennò mi avrebbero informato del funerale. Meglio, un'occasione in meno per essere costretto a mettermi giacca e cravatta. Con sto caldo poi... La gente che crepa a Luglio non ha proprio creanza. Comunque, sempre meglio di chi a Luglio si sposa. Perché almeno dopo il funerale mica c'è il pranzo lunghissimo e spossante, e puoi tornare subito a casa, cambiarti e magari riesci anche a vedere l'arrivo della tappa del Tour. Oh, grande Nibali quest'anno, eh!.... Ma a cos'è che stavo pensando all'inizio?...".
Funziona così, no? Con le persone poco importanti, dico.
E per me lo stesso è con il mare. Si, per carità, anche lui ha diritto di esistere. Però non è che ci si debba incontrare tutte le volte. Ognun per sé. Se poi casualmente ci si becca in giro, allora può pure andar bene. Ma mica che diventi una roba d'impegno.
Così, quando finalmente diventai grandicello e mi allontanai dalle compagnie filomarittime, potei finalmente dedicarmi segretamente a lei: la Montagna! Si, segretamente. Perché quando hai 17 anni e tutti i tuoi amici d'estate vogliono andare in spiaggia per sfoggiare i loro brufoli davanti a coetanee in bikini che a forza di voltarsi dall'altra parte per ignorarli a 20 anni si ritrovano tutte con una distorsione cronica del rachide cervicale e tu invece ti lasci scappare che preferiresti andare in montagna a passeggiare nei boschi e scoprire se sono nati i primi funghi dopo qualche giorno di pioggia... cioé, socialmente sei morto. Morto!
Non so se mi spiego. A 17 anni devi stare più attento a quello che dici di Papa Ratzinger quando parla dell'Islam all'Università di Ratisbona. Papa Ratzinger ha le Guardie del Corpo. Svizzere e vestite come nemmeno un daltonico, ma sempre Guardie sono. Tu no. Tu se ti fai scappare una parola sbagliata, un concetto contro corrente, una citazione colta, sei socialmente morto. MORTO!
E infatti ci fu un periodo abbastanza lungo in cui in montagna non andai quasi per nulla. Diciamo tra i 14 e i 20 anni, si. Appunto per le succitate compagnie e per l'età complicata in cui fare coming out.
Tuttavia, il pensiero non ne era completamente distolto. Il bosco, la natura, i ruscelli... trovai un palliativo. Un sostituto. La pesca sportiva. Fino ai 22 circa anni io sono stato un malato di pesca. Ci ho speso tutti soldi che ricevevo dai regali e le paghe dei lavoretti estivi (che poi lavoretti... lavoretti un cazzo: quando facevo il cameriere in albergo lavoravo 7 giorni su 7 per 10 ore al giorno di media senza nessun giorno di ferie o malattia... altro che lavoretti!).
Collezionai annate intere della gloriosa Pesca In, la rivista più importante del settore di quegli anni. Divoravo gli articoli di Fausto Buccella, Mario Molinari, Milo Colombo, Michele Marziani... ma soprattutto Elvio Scarrone. Gli altri scrivevano articoli, recensioni, commenti tecnici. Elvio Scarrone scriveva, scriveva nel vero senso della parola. Raccontava, ti trascinava dentro e ti portava sui suoi ruscelli, indietro negli anni a volte, nei giorni freddi delle aperture dell'ultima domenica di Febbraio, quando si dirigeva nel "suo posto" al torrente, studiato puntigliosamente nei mesi precendenti, facendosi largo nella neve con le energie residue dalla notte insonne e nascondendo la barba nera sotto il colletto del maglione. Aveva un modo di scrivere sensazionale!
Oltretutto le sue narrazioni si svolgevano proprio in montagna, su torrenti piccoli, spesso raggiungibili solo dopo un bel tragitto in macchina e una bella faticata a piedi.
Dentro al bosco, silenzioso, solitario, spesso freddo e apparentemente addormentato.
Benché io a quell'epoca praticassi una pesca assai diversa dalla sua, essendo per conformazione territoriale la mia casa molto più vicina a laghi e stagni, piuttosto che a fiumi e torrenti, i suoi articoli li attendevo con ansia e li leggevo e li rileggevo di continuo. Come se a forza di leggere potessi finalmente essere assorbito dalle pagine della rivista e poter trovarmi all'interno delle storie raccontate. Poter vivere quegli ambienti, quelle atmosfere, quegli stati d'animo di fatica e conquista.
Infatti pian piano mutai le mie abitudini di pescatore e passai da una pesca statica e d'attesa, ad una di movimento più attiva, cambiando tipologia di prede e accontentandomi anche di una sola cattura a costo di tanta fatica in grado però di portarmi una soddisfazione maggiore. Tengo a precisare, per i benpensanti, che praticavo (come la maggior parte dei pescatori facevano e fanno) il catch and release, ovvero, una volta catturato, il pesce veniva slamato con accortezza e poi rilasciato.
Negli ultimi anni della mia attività di pescatore sportivo, migrai sullo spinning. Ovvero la pesca con le esche artificiali (cucchiani, minnows e tutta quella serie di robette di plastica che costano un occhio e che rischi di perdere ad ogni lancio). Iniziai a frequentare il fiume della mia città. Fiume o come lo vogliamo chiamare. Sognando fario autoctone ed esultando per un cavedano plebeo.
Ma come nacqui pescatore? Riassumendo un breve excursus, il mio battesimo come pescatore lo ebbi a 6 anni partecipando ad una gara di pesca alla trota in laghetto organizzata dal CRAL dell'azienda in cui lavorava mio padre. Fu un segno del destino, si potrebbe dire, perché il culo dei principianti (e la pochezza anche degli avversari) mi permisero di vincere sia il primo premio nella graduatoria dei piccoli che quello in quella degli adulti, superando e non di poco il peso in catture del secondo classificato. Mi aggiudicai una coppa e una canna con mulinello (niente di ché, ma già  molto meglio dell'attrezzatura che possedeva ognuno che quel giorno aveva partecipato alla gara).
Dissero che in realtà era stato mio padre a catturare le trote e che poi le avesse date a me per farmi vincere, ma così non era e i pescatori che in postazione erano vicini a noi durante la gara testimoniarono l'accaduto. I premi mi vennero aggiudicati, nonostante diverse proteste. Incredibile comunque come anche in una gara domenicale del CRAL vi sia gente pronta a far polemica per un coppa con un bambino.
Negli anni seguenti partecipammo altre due volte a gare organizzate dal CRAL, arrivando io secondo e mio padre terzo e viceversa. Entrambe le volte capitò a noi quello che era capitato quella volta agli altri, un principiante ci aveva superato per una botta di fortuna e si era aggiudicato il primo premio. Ma così va la pesca e infatti noi non protestammo mai. Ma a parte queste due occasioni decidemmo di non prendere più parte a queste iniziative, perché ogni volta che ci presentavamo al campo di gara c'era sempre qualcuno che iniziava a bestemmiare. Non è che fossimo dei campioni, ma noi a differenza di quasi tutti gli altri sapevamo pescare, perché in quegli anni ci andavamo spesso e sapevamo affrontare ambienti e situazioni diverse, e finiva sempre che bene o male uno o due premi grossi li portavamo via. Questo ovviamente non piaceva né agli altri partecipanti né al CRAL che organizzava, perché poi si beccava le polemiche. Per noi invece pescare voleva dire divertirsi, di rotture di balle non ne avevamo pezza e decidemmo di lasciarle agli altri.
Qualche anno dopo passai alla pesca alla carpa, sempre in lago e al catch and release. Era la moda del momento, mentre fino a pochi anni prima lo era stata la trota che una volta pescata si portava a casa e si stipava in congelatore (oddio, noi la mangiavamo anche). Comprai con le mance del lavoro estivo una canna inglese per la pesca medio-pesante a fasce di carbonio intrecciate e iniziai a frequentare le cave e i laghetti "selvatici". Imparai la tattica, oltre che la tecnica, capendo quale fosse il luogo migliore in un ambiente acquatico in cui concentrare gli sforzi. Imparai a seconda delle stagioni quali esche si rivelavano più appetibili e come preparare già da una settimana prima il "campo di battaglia". Insieme ad un amico ci focalizzammo sulle nuove tecniche e i materiali che venivano dall'Inghilterra, ricavandone un compromesso accettabile con quel che finanziariamente potevamo comprarci e quello che non arrivandoci coi soldi ci fabbricavamo in casa. Ma questa fase durò relativamente poco. Mi tolsi anche delle belle soddisfazioni: le grosse carpe nate e cresciute in cava sono dei treni a vapore e quando le agganci inizia una lotta che può durare parecchio, specialmente se l'ambiente è ricco d'ostacoli sia visibili che sommersi. Ma, come dire... non era la mia pesca. Si, il combattimento con una carpa da 8-10Kg. contrastata con una canna inglese, seppure rinforzata, non è certo cosa noiosa, ma stare seduto ad attendere, seppur nemmeno questo mi annoiasse, non era comunque ciò che sentivo completamente appagante.
Riniziai con la trota in laghetto, perché più dinamica e attiva. Nel frattempo anche questo genere di pesca era cambiato radicalmente, i galleggianti erano pressoché spariti dalla circolazione e chi si ostinava ad adoperarli era considerato nel migliore dei casi un antiquato, nel peggiore uno sfigato/incapace.
Erano nate nuovi tipi di canne da pesca insieme ad una nuova tecnica: la "tremarella". D'altronde è pur vero che la trota è un predatore e la vecchia pesca statica con il galleggiante e il verme ciondolante a mezz'acqua non era in effetti particolarmente indicata. Al posto dei vecchi galleggianti, il mercato fu invaso da piombini allungati che andavano dai 3 ai 7 cm e che avevano la stessa misura di peso in grammi (3-7gr.) e da aggeggi ancor più strani che servivano per pescare le trote al largo nelle grandi cave: le bombarde. L'obiettivo sia dei piombini che delle bombarde era quello di avere una zavorra idrodinamica in grado di permettere di lanciare in distanza ma di non fare affondare la lenza quando veniva recuperata dal pescatore. In questo modo una volta effettuato il lancio e aver fatto affondare la lenza alla profondità desiderata, si iniziava l'azione di recupero, che era poi quella di pesca vera e propria, essendo abbastanza sicuri che la lenza avrebbe viaggiato sempre alla stessa profondità.
E qui subentrava l'abilità del pescatore. Bisognava non solo recuperare con il mulinello infatti, ma accompagnare l'avvolgimento del filo con una serie continua di colpetti, strappetti, movimenti del cimino che davano all'esca un andamento "tremarellante" oltre che rotante. Se si era bravi a metterlo in pratica, il sistema funzionava alla grande con le tonte trotelle d'allevamento immesse nei laghetti a pagamento.
All'inizio la taglia medie delle trote era intorno ai 3-500gr. con una media di 6-8 catture al giorno. Ma ben presto i pescatori divennero competitori, dimenticando il gusto della cattura sudata e ricercata, e volendo invece solo fare mattanza. Ogni Domenica si facevano gare e per accontentare questa fame di catture dei pescatori, i gestori diminuirono sensibilmente la taglia dei pesci per poterne immettere un quantitativo maggiore.
L'ultima volta che andai a pescare le trote in laghetto, ne catturai in tre ore una quindicina di cui la più grossa sfiorava il ragguardavole perso di 150gr. Inoltre senza doverci mettere nessun impegno o dovermi inventare alcunché.
Che cazzo di senso aveva? La pesca è una sfida. Devi imparare a leggere le condizioni e capire dove stazionato i banchi di pesci a seconda della temperatura, del vento, della presenza del sole o meno. Se io immetto una tale quantità di trote da farle stare quasi strette nel poco spazio a disposizione, ovvio che basta gettare l'amo in un punto qualsiasi del lago, a qualsiasi profondità, per stare sicuro di far cadere l'esca a tiro di qualche ingenuo avvannotto appena svezzato.
Oltretutto chi partecipava ogni settimana alla gara prevista (e vi assicuro che ce n'era di gente, al tempo) che ne faceva di tutte quelle trote? Le buttava, ecco che ne faceva. Dopo la pesa e l'assegnazione dei premi, la maggior parte delle catture veniva gettata nel cassonetto poco fuori dai cancelli del laghetto o in quello vicino a casa dopo aver mostrato le prede alla famiglia. Perché le carpe di possono rilasciare e sopravvivono, ma la trote sfortunatamente no. Sono più delicate e comunque d'estate nei poco profondi laghetti artificiali morirebbero tutte comunque. Così, una cosa e pescare e portare a casa 5-6 pesci. Un po' li mangi la sera un po' li congeli o li regali, e vabbé amen. Una cosa e pescare 30-40 trote da un etto tutte le settimane. Ovvio che non riuscirai mai a mangiarle tutte. Quindi finiscono nel cassonetto.
Non sono un animalista, non di quelli integralisti che si leggono anche in rete, ma una roba così è un insulto alla vita. E infatti anche questa pesca l'abbandonai.
Mi spostai di nuovo verso le cave selvatiche e i fiumi, e come dicevo sopra approdai allo spinning che fu veramente, per quel poco che durò, la mia pesca ideale. Attiva, tattica, tecnica e soprattutto rispettosa, perché mi permetteva di pescare allamando i pesci sulle parti più esterne della bocca e, quando poi iniziai a pescare con gli ami senza ardiglione, di poter rilasciare tutte le prede con solo una feritina su labbro piccola come la puntura di un ago. Quindi senza che riportassero conseguenze per la loro sopravvivenza.
Fui un mattatore di black bass, un discreto cavenadista, presi pure qualche trota ma non riuscii mai ad allamare un luccio, che pure era invece la preda più ambita. E vabbé, non sempre si vince.
Ma con il passare degli anni, altre esigenze fecero capolino nell'economia delle mie giornate. La morosa, gli amici, finalmente quelli veri e una mole maggiore di impegni. L'università, gli esami, il costo dei libri... mal si accordavano con tutte le esigenze di tempo e denaro che la pesca richiedeva. Così pian piano, quasi senza nemmeno accorgermene, la abbandonai.
Terminata anche questa parentesi per qualche anno, sul versante "natura" rimasi molto meno attivo. Però quello che della pesca mi piaceva, ovvero la libertà, lo stare in mezzo alla natura, non mi abbandonò di certo, anche perché in realtà fu proprio quella la spinta verso la pesca stessa.
In quegli anni, poco prima che la mia carriera piscatoria terminasse, iniziai infatti a tornare al Pincio. Il Pincio è un monte degli Appennini di questa parte d'Italia ed è li che capii cosa stava all'origine di tutto il mio mondo ideale. Capii perché mi piacesse fare ciò che mi piaceva fare e perché al contrario altre attività non mi trasmettessero alcunché. Li capii perché la pesca e non il wind surf. Li capii perché camminare e non nuotare. Li capii perché le castagne e non le cozze. Io ero un montanaro, finalmente era chiaro. Niente sabbia e alghe, ma terra e alberi. Quella era casa mia.
Ma perché tutto ciò diventasse evidente, dovette arrivare un periodo abbastanza cupo.
Era il secondo anno di Università a Bologna. Avevo dato pochissimi esami ed anzi, avevo collezionato più bocciature che altro. Bologna era una città che mi stava troppo grande. A 20 anni io mi ci perdevo, mi ci divertivo anche per carità, ma non era per me possibile concentrarmi, li. Non sapevo organizzarmi e le scadenze mi arrivavano addosso con violenza, nonostante chiunque altro avrebbe avuto tutto il tempo e il modo per prepararsi e non farsi travolgere. E infatti gli altri lo facevano. Era a me che non riusciva.
Maturai infine l'idea che era necessario chiudere quel capitolo. Stavo facendo spendere soldi ai miei genitori, perché i miei fondi non bastavano di certo per pagare retta, libri e affitto dell'appartamento, e non portavo a casa nessun risultato. Bisognava porre subito fine a quella perdita di soldi e di tempo, e lo feci. Feci forse la prima cosa da adulto, sobbarcandomi le conseguenze di un mio fallimento. Non sarei mai diventato un Chimico Farmaceutico. I parenti già rumoreggiavano.
Ma i miei genitori non mi fecero mai pesare la cosa. Loro si, davvero lungimiranti, capirono che calcare la mano avrebbe avuto come unico effetto quello di ficcarmi sempre più in un gorgo da cui in quel momento di molta confusione avrei fatto una gran fatica ad uscire. Fecero una cosa all'apparenza banale, ma che al contrario denota grande forza, saggezza e anche fiducia nei miei confronti: mi lasciarono libero.
Dopo qualche mese, infatti, tornai a respirare di nuovo e vedere un po' più chiaramente e serenamente il futuro. Monte Pincio fu un luogo ideale, riparato, accogliente, in cui raccogliere i pensieri e ripartire. Le brevi ma più frequenti parentesi che riuscivo a passare in quei luoghi mi ridiedero slancio, perché mi facevano vedere il mondo da un'altra prospettiva, soprattutto perché li, alla Casa del Pincio, ci andavo proprio con i miei genitori che durante le lunghe serate davanti al camino mi raccontavano della loro vita passata a fare i conti ogni giorno con la povertà, con le emergenze e mi fecero capire che se ce la avevano fatta loro a crearsi una vita soddisfacente che erano partiti da niente, ci sarei riuscito anche io. La mattina poi ci si alzava presto e con mio padre facevamo sempre una passeggiata fino alla cima del monte, prima di colazione. Guardavamo il bosco svegliarsi pian piano, mentre il sole sorgeva lentamente in quei giorni d'autunno. Le giornate erano scandite dal ritmo del giorno stesso, non da orologi e programmi televisivi. Capii che gli impegni, il lavoro, l'univerisità, gli esami, sono cose importanti ma non sono il mondo. Il mondo fuori ci sarà sempre, che tu sia un chimico farmaceutico o un operaio. Ci sono doveri che per il nostro ruolo o professione dobbiamo sbrigare, ma non dobbiamo permettere a questi di consumarci la vita, perché la vita è altrove. E' quella che si vive con le persone care, magari condividendo lo spettacolo di un'alba al Pincio. Quest'occhio più sereno sulla quotidianità contribuì alla volontà di volerla sfidare di nuovo, proprio perché le aveva ridato la sua giusta importanza e prospettiva.
Da quando, in quell'autunno, tornai a frequentare la casa al Pincio, mi dissi che non sarei mai più rimasto così tanto tempo lontano da quei luoghi.
Terminata l'esperienza universitaria a Bologna, l'estate successiva iniziai a lavorare come magazziniere. Tornai alla base, al lavoro manuale e di fatica, ma sereno e senza tanto stress. Incontrai persone semplici e vere che non mi giudicarono perché avevo abbandonato l'università prima di approdare li, ma anzi mi chiedevano tutti curiosi che cosa si facesse per davvero in un'università. Qualcuno mi chiamava Doc, anche per percularmi naturalmente, ma bonariamente e quando il mio contratto da estivo giunse alfine al termine tutti, TUTTI, i miei colleghi mi spinsero a riscrivermi all'Università. Naturalmente era un'intenzione che già covavo dentro di me, ma ammetto che quella spinta non fu così secondaria per farmi prendere la decisione definitiva di riprovarci.
Nel frattempo però, qualcosa della precedente esperienza universitaria era rimasto e si stava anzi rafforzando. Claudio, mio grande amico sin dai tempi del Liceo, fu poi mio compagno di appartamento per i due anni in cui frequentai Chimica e Tecnologie Farmaceutiche. Fu molto dispiaciuto quando gli comunicai la mia decisione di ritirarmi, ma per fortuna tale decisione non ebbe conseguenze sulla nostra amicizia anche perché non ci perdemmo certo di vista, dato che tutti week end comunque anche lui tornava nella nostra città natale.
Prima di compiere il decisivo passo indietro, inoltre, ebbi l'occasione di conoscere anche Stefano e Donato. Non diventammo amici da subito. Molto per colpa della mia timidezza dell'epoca e un po' perché una volta terminata la mia esperienza a Bologna ebbi pochissime occasioni per vederli nei mesi subito successivi. Stefano abitava proprio a Bologna, mentre Donato era di Forlì. Il week end non scendevano certo a Rimini come Claudio.
Però Stefano a Rimini ci veniva sempre in estate e fortunatamente per tre mesi quasi interi. Fu durante l'estate successiva, infatti, che diventammo veramente amici. Una sera mentre era in macchina con me, per questioni di convivenza in abitacolo si stavano facendo due chiacchiere generiche, mentre percorravamo un imbottigliatissimo lungomare (a quel tempo i turisti qua non mancavano mai). Dal parlare del più e del meno, finimmo in poco tempo a parlare di argomenti sempre più personali che in quegli anni ruotavano sempre e immancabilmente intorno alla ragazza di turno che non ricambiava il nostro interesse. Ci scoprimmo così molto simili, anche nella nostra poca fortuna con l'altro sesso e nelle settimane successive cominciammo a vederci quasi tutte le sere, insieme anche a Claudio, finendo puntualmente a bere in un famoso bar del sangiulianese. A fine estate sembrava che anche con lui mi conoscessi da sempre.
Con Donato invece la vicenda fu più spezzettata e ci volle un po' più tempo affinché riuscissimo a prendere la giusta confidenza per capire se fossimo veramente personalità compatibili. Le posizioni di partenza, d'altronde, sembravano assai lontane. La prima volta che venimmo a contatto, diciamo così, fu durante il mio ultimo anno di frequenza di CTF. Eravamo nello stesso corso di non mi ricordo quale materia e finita la lezione un giorno mi si avvicina e mi fa: "Tu sei amico di Claudio, vero? Sono in macchina, ti do uno strappo io a casa se vuoi". Accettai. Per paura, mica per altro. Perché il Donuccio in quel periodo mica sembrava un bimbone pacioccone (manco adesso in verità). E' vero che pesava si e no 60kg a stomaco pieno, ma a vederlo incuteva comunque un certo timore. Almeno a me. Era vestito sempre di nero, con occhiali scuri, Camperos e alla fibbia della cintura portava un pezzo di caricatore di M16. Il che non è che contribuisse a conferirgli proprio quest'aria di affidabilità.
Mentre poco dopo montavo sulla sua Golf nera decapottabile, pensavo: "Mo' questo mi porta in un campo e sacrifica il vitello grasso al demonio, sta a vedere...". Invece no, fui accompagnato a casa sano e salvo e, giuro, non esagero, per dire quanto ero fuori dal mondo, mi meravigliai un sacco che uno come lui, anzi come mi immaginavo fosse uno come lui, chiedesse un sacco di cose su me, sul mio passato, su cosa mi piacesse fare, se ascoltassi musica (io all'epoca facevo finta che mi piacesse il raggae), se mi trovassi bene li all'università. Ok, avevo sempre il timore, di fondo, che fossero tutte informazioni che gli servissero per organizzare al meglio il sacrificio di cui sopra, però ammetto che stavo cominciando a considerare l'ipotesi che tutto sommato fosse un buon diavolo... tanto per rimanere in tema. Capitò poi che ci vedessimo dopo molto tempo, quando Claudio si laureò e io salii a Bologna per seguire la sua discussione di Tesi e per i successivi, dovuti, festeggiamenti. Trovai Donato un bel po' cambiato. Aveva messo su qualche chilo, aveva inserito qualche altro colore nel suo guardaroba e aveva una fissa che rasentava il patologico per Baldru's Gate. Li avemmo modo di parlare un po' di più e conoscerci meglio. Certo, non emerse ancora per un po' un granché in comune, ma ci si trovava bene a chiacchierare e a magnare, e tanto bastava. Bastava per far si che gli incontri continuassero e finalmente i punti in comune uscissero, specialmente, ed è incredibile da dire guardando alle premesse del nostro primo incontro, caratterialmente.
Non starò ora a continuare l'elenco di tutte le volte che ebbi modo di rivedere Donato e Stefano finché non diventarono insieme a Claudio i miei più cari amici, basti sapere che così successe. E dall'amicizia che finalmente ci legava nacque l'idea di un campeggio estivo. No, non quello famoso. Quello precedente.
Donato, che come detto era del forlivese, era a conoscenza di una sagra che si svolgeva tutti gli anni, ad Agosto, a Premilcuore. Premilcuore (FC). Perché Premilcuore è in provincia di Forlì-Cesena. Non come Perticara, che invece è in provincia di Rimini. Ah-ehm....
Passammo il we della sagra del cinghiale tra bagordi inenarrabili e post sbornia memorabili, ma li, sotto i fumi dell'alcool, partorimmo un altro progetto. Un fatto che fu poi il vero innesco della mia evoluzione di montanaro. La prima uscita in trekking.
Di nuovo, non starò a riraccontare quelle gesta che sono ben conosciute dalle uniche due persone che probabilmente finiranno per leggere questo post. Uno perché le ha vissute e l'altro perché gliel'avrò raccontate almeno dieci volte.
Mi soffermerò sull'essenziale, ovvero su cosa quell'esperienza c'entri con il discorso dello "scrivere della montagna".
Tralasciando i fatti, quel che portai a casa dopo quella settimana fu una profonda sensazione di insoddisfazione e malinconia che non mi abbandonò per settimane. L'insoddisfazione non riguardava naturalmente i giorni trascorsi in escursione, quanto per quel che quei giorni mi avevano rivelato e che avrebbe pesato poi per sempre nella misura della soddisfazione di ciò che a quei giorni sarebbe succeduto. Non so se mi sono capito...
Facciamo un passo indietro ancora, per cercare di spiegare bene poi dove tutto questo discorso vuole andare a parare.
Durante buona parte della mia infanzia, pubertà, ma soprattutto adolescenza e tarda-adolescenza, io fui un gran ciccione. Ok, si, anche adesso lo sono. Mica lo nego. Ma rispetto ad allora posso dire che oggi sono un grissino.
L'apice della mia adiposità lo toccai proprio in concomitanza dell'anno del mio ritiro da CTF.
Quel che non toccai più era la punta dei piedi però, perché arrivai all'infelice traguardo di 130 e passa chilogrammi. La mia proverbiale facilità a cedere alle lusinghe della forchetta fu certamente fomentata dalla situazione in cui mi trovavo e dalla decisione che avevo preso: provavo vergogna verso i miei genitori, verso i miei ex compagni di università (gli stessi miei amici qui citati, che poi in CTF si sono tutti laureati) e naturalmente verso me stesso. Passavo buona parte delle giornate in casa, leggendo riviste di pesca e fagocitando qualsiasi cosa mi arrivasse a tiro.
Un aneddoto che racconto sempre, è che nel momento peggiore, in un pomeriggio, quindi per "merenda", mi mangiavo un intero tubo di Pringles, uno di Cipsletten della Balsen (tipo Pringles ma più piccole), una merendina al burro di cui non ricordo la marca ma mi pare fosse della Balsen anche quella (tanto per tagliare il sapore salato con un po' di dolce) e per finire una confezione intera di anacardi. Poi naturalmente la sera cenavo normalmente, perché tutte queste cose le mangiavo di nascosto e se non avessi cenato poi i miei genitori si sarebbero insospettiti (e comunque non è che mi dovessi sforzare più di tanto per farlo) e dopo cena mangiavo ancora! Spesso un piada intera con salame e maionese.
Insomma, per quel che mi trangugiavo ero persino troppo magro.
Finii dopo qualche mese di questa... dieta, con la pressione alle stelle (a 20anni!) e una duodenite piuttosto fastidiosa. E ben che mi andò!
L'autunno successivo fu quello famoso del Pincio, in cui passai qualche week end con i miei genitori li alla Casa e che fu l'inizio del risveglio. L'estate dopo decisi finalmente che dovevo darmi una mossa e spinto anche dai discorsi di mio padre e di mia madre, mi cercai e mi trovai un lavoro. Andai a fare il magazziniere, come scrivevo prima e oltre a trovarmi bene con i colleghi, il lavoro "manuale" mi regalò anche qualche chilo in meno senza nessuna dieta particolare. Senza contare che il pomeriggio, lavorando, non avevo certo il tempo di ingozzarmi di pringles e compagnia e la sera dovendo andare a letto presto non riuscivo più ad indulgere in piadine ed affini.
Contemporaneamente a questo dimagrimento regalato dalla vita, è il caso di dirlo, nacque in quei mesi anche una piccola relazione con un'esponente del gentil sesso. Questo improvviso, apparente, successo, riempì in parte il vuoto che in genere veniva occupato dal cibo e anzi, mi diede spinta per continuare l'opera di dimagrimento che era iniziata quasi per caso. Tanto che un giorno, senza nemmeno averlo programmato, presi la mia MTB, inutilizzata dai tempi in cui mi fu regalata a 12 anni e dissi a mia madre: "Vado a fare un giro in bici. Ci vediamo dopo.". Lei fece una faccia come a dire "Bici?? Tu!?!?!?". Ma non le diedi tempo di parlare, non volevo smontare quella spinta che aveva sorpreso anche me e imboccai pedalando il cancello di casa dirigendomi verso le prime stradine di campagna.
Nel frattempo il lavoro estivo era terminato e con quell'esponente del gentil sesso... beh... se dico due di picche credo di aver già spiegato a sufficienza. Ma ormai il meccanismo era stato messo in moto ed era diventato inarrestabile. Quell'autunno partecipai al test d'ingresso per Psicologia, lo superai anche piuttosto bene e venni ammesso al Corso di Laurea. Non ancora filiforme e sebbene molto più maturo rispetto a solo due anni prima, ero comunque ancora poco avvezzo a farmi compagnie in poco tempo in un contesto nuovo e vasto come quello universitario. Ma il bello dell'università è che ti fa crescere anche socialmente, oltre che culturalmente.
In verità fu la compagnia a venire a cercare me e fui certamente fortunato, si. Però questa volta mi feci anche trovare pronto e rispetto al passato mi forzai a non chiudermi a riccio. Mi ero veramente rotto le palle, scusate il francesismo, di essere sempre lo sfigato che stava in disparte.
Conobbi tante persone e soprattutto tante ragazze (mica per niente Psicologia, eh! ;-D). Ok, non ci combinai mai niente, anche perché poco dopo mi ammorosai proprio con una esponente della compagnia con cui uscivo già da tempo nella mia città e che tutt'ora è la mia compagna, ma soprattutto il primo anno, quando ancora ero single e circondato da tutta quella f... folla di belle ragazze, che sebbene non sembrassero interessate quanto lo ero io, comunque almeno non mi schifavano, fu un carburante notevole perché il cambiamento che avevo messo in moto non si arrestasse.
Intensificai i giri in MTB, tentai le colline oltre che la pianura e pian piano riuscii ad ottenere una buona forma. Non faticavo più tantissimo e il giro in bici era diventato così piacevole da passare ad essere un'abitudine quotidiana. Insomma arrivai al peso, incredibile, lo dico senza falsa modestia, di 78Kg. Ma non ero cambiato solo nella forma esterna, ero cambiato anzi soprattutto dentro. Quel che non ero mai stato capace di fare in un ventennio, l'avevo trasformato in realtà in nemmeno due anni. Ero magro, avevo amici veri e ora avevo persino una ragazza.
Questo nuovo me stesso si era liberato dalla depressione post CTF e dalla vergogna che l'aveva generata. Avevo una vita tutta nuova e pitturata di fresco.
Quel preciso momento della mia vita coincise proprio con la prima uscita a trekking compiuta con coloro che a tutt'oggi sono le persone più care che ho, insieme alla mia compagna, mia figlia e i miei famliari. Non fu solo l'epilogo della mia trasformazione, ma l'apice e la vera conferma della stessa. Un'uscita a trekking... io...
Pensate ora solo per un attimo al ciccione che si ingozza di tutta quella robaccia in un pomeriggio passato in solitudine sul divano di casa. Pensate che è la stessa persona che solo due anni dopo partecipa con entusiasmo, voglia e un'eccitazione da non stare nelle braghe ad una settimana di trekking. Sudore, fatica, sete, adattarsi alle condizioni in cui ci si trova, spirito di improvvisazione e risorse morali, tutte cose presenti e necessarie per un trekking di più giorni nei boschi. Chi l'ha fatto anche una sola volta nella sua vita sa bene che è così.
A pensarci su un attimo, tutto questo mal si concilia con l'immagine di quel ciccione con le pringles, no? La mia passione per la montagna che già sapevo esistere, e che è stata una delle spinte motrici di tutta la trasformazione che vi ho raccontato, ha trovato in quella settimana la sua definitiva consacrazione ed espressione. In quei giorni quel nuovo me è approdato finalmente alla sponda di quel mare che stava attraversando. Vabbé, dai, non facciamo troppo i drammatici, diciamo che era un lago, non un mare.
Comunque, in quella piccola avventura trovai una dimensione nuova. Mi sentivo bene, mi piaceva tutto quello che stavo vivendo e soprattutto mi sentivo finalmente parte attiva e fondamentale di una bella cosa che avevo programmato e messo in pratica con i miei più cari amici.
La Domenica successiva, al termine della nostra avvenura, tornai a casa con un senso di grande insoddisfazione come dicevo. Ora forse capirete perché. Quel momento fu per me così importante da essere un vero e proprio punto si svolta, uno spartiacque vero e proprio tra una mia fase di vita e l'altra. Li, tutto quel che di nuovo e costruttivo avevo scoperto in me stesso aveva avuto in ogni istante la possibilità di esprimersi, di palesarsi. Aveva avuto in quei luoghi e con le persone che erano con me, il suo contesto di esistenza ideale. Come poteva quindi non rimanere un minimo di insoddisfazione sapendo che quella dimensione non ero in grado di importarla nella mia quotidianità? Si, ha comunque avuto un effetto su di essa, certamente. Ma rimanevano e rimangono ancora due entità distinte.
L'unica soluzione sarebbe importare la mia quotidianità in quella dimensione. Questo sarebbe tecnicamente possibile. Ma sarà difficile...